lunedì 14 novembre 2011

LE CARCERI ITALIANE SONO DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO


Oramai non è più una questione di statistiche di morti, di suicidi, anche di agenti della polizia penitenziaria e non solo più dei detenuti: le carceri italiane stanno diventando dei veri e propri campi di concentramento dove gestire come capita, un po’ con la ferocia della burocrazia, un po’ con la compassione di alcuni esseri umani e un altro po’ con l’indifferenza dei più, quelli che Marco Pannella nelle proprie definzioni oniriche chiama “nuclei conistenti di Shoà.” Posti dimenticati dallo stato, anche in termini di mancate assunzioni di agenti di custodia, di stanziamento per le infrastutture e persino per il cibo dei reclusi, anfratti in cui seppellire la cattiva coscienza di una società che identifica la carcerazione con la propria sicurezza senza sapere di stare scavando la bara allo stato di diritto.
Ci sarebbero migliaia di esempi, migliaia di casi, migliaia di storie da raccontare e con i dovuti approfondimenti. Per pura comodità del lettore abbiamo deciso di ricordare tre casi che recentemente hanno scosso l’opinione pubblica sensibile ai problemi del carcerario e alle voci che vengono dal di dentro. Quello del detenuto senegalese Saidou Gadiaga, 37 anni, morto dopo un attacco di asma in una cella della caserma Masotti, sede del comando provinciale dei carabinieri di Brescia, il 12 dicembre 2010.
Quello di un povero rumeno, Marcel  Vizitiu, morto ammazzato di botte il 3 ottobre di quest’anno dopo avere compiuto quelli che vengono definiti atti di resitenza a pubblico ufficiale. E quello del cuoco del carcere di Velletri Ismail Ltaief, tunisino, che ha denunciato alcune guardie carcerarie e la vicedirettrice, tutti rinviati a giudizio per reati vari tra cui il peculato, per  i continui furti del vitto dei detenuti. Tutti e tre questi casi sono stati oggetto di interrogazioni parlamentari dei radicali, nella persona di Rita Bernardini, ormai considerata la Florence Nightingale delle prigioni d’Italia.
 

LA MORTE DI SAIDOU

Era  venerdi 11 dicembre 2010 quando questo ragazzo senegalese di 37 anni viene arrestato a Brescia, terra ad alta densità leghista, perchè a un controllo dei carabinieri per strada risultava privo del permesso di soggiorno. Se lo avessero fermato tredici giorni dopo, quando anche l’Italia recepisce la normativa europea sui rimpatri che annulla il reato di inottemperanza al provvedimento di espulsione, le manette non sarebbero scattate. Come scrive “Repubblica” quel giorno, “l’immigrato non viene rinchiuso in carcere ma nella caserma di piazza Tebaldo Brusato.” Gadiaga è un paziente asmatico.
I carabinieri lo sanno perché ha subito mostrato il certificato medico. Alle prime ore del mattino il senegalese ha una crisi. Lo conferma un testimone, Andrei Stabinger, bielorusso detenuto nella cella accanto. “Sono stato svegliato dal detenuto che picchiava contro la porta e chiedeva aiuto gridando. Aveva una voce come se gli mancasse il respiro. Dopo un po’ di tempo ho sentito che qualcuno apriva la porta della cella e lo straniero, uscito fuori, credo sia caduto a terra”. Il video che ha fatto il giro di tutta facebook fa vedere quest’uomo che cade fuori dalla cella aperta nell’indifferenza delle guardie presenti per terra e muore soffocato dopo pochi minuti. Sarebeb bastata una dose di ventolin per salvarlo.

LA MORTE DI VIZITIU

La sua storia l’ha raccontata con una lettera
 a Rita Bernardini,  che poi ne ha fatto un’interrogazione parlamentare al ministro Guardasigilli, il suo avvocato, Giuseppe Serafino, che poi ha anche presenziato al congresso di Radicali italiani tenutosi la scorsa settimana a Chianciano. Ecco il suo racconto: “Vizitiu Marcel la sera di venerdì 30 settembre, verso le ore 20, si sarebbe recato presso una rivendita di tabacchi di Messina  in evidente stato di ebbrezza. Poiché avrebbe sin da subito incominciato a dare in escandescenza i titolari del negozio hanno chiamato i carabinieri che sono intervenuti pressoché nell’ immediatezza. A questo punto il racconto dei carabinieri (unica fonte di quei momenti) è a senso unico: il Vizitiu è impazzito e incomincia a rivolgere loro una serie di minacce ed ingiurie, talune incomprensibili altre chiare ed in italiano (il cittadino rumeno, scrivono in altro
atto, non parla e non comprende l’italiano). I carabinieri cercano di contenerlo ma la scomposta reazione del Vizitiu gli impedisce di farlo efficacemente. Con difficoltà lo ammanettano ma questo continua a
dimenarsi. Con maggiore difficoltà lo mettono sulla lettiga di una barella alla quale viene assicurato con le cinghie in dotazione. Poiché
nonostante queste  misure continuava ancora a dimenarsi lo assicurano alla barella con un secondo paio di manette. In tutto questo frangente, scrivono i carabinieri, il Vizitiu avrebbe cercato di colpirli a testate andando rovinosamente a sbattere a terra con la testa a causa della mancanza di equilibrio dovuta all’ubriachezza e così provocandosi numerose fratture ed ematomi, avrebbe cercato di colpirli con calci e pugni e solo con l’intervento di un’altra pattuglia e dei sanitari del 118 sarebbero riusciti ad immobilizzarlo nelle forme sopra dette.” In carcere il giovane viene visitato da un medico che gli trova contusioni e ferite su tutto il corpo, come se avesse subito un pestaggio. Aggiunge poi il dottor Famà: “altresì si evidenzia che nella prima fase di accoglienza, ed ancor prima della presa in carico
del detenuto, è stato stabilito un contatto telefonico con il magistrato di turno, dottoressa Arena, alla quale, dopo aver fatto
opportuna comunicazione al Direttore della casa circondariale, si è rappresentata la grave difficoltà ad ospitare il detenuto in oggetto
sia per la condizione medica sia per le lacune logistiche dell’ istituto. Tuttavia, dopo ampia discussione, viene ordinato di accettare il detenuto e di provvedere al meglio della sua gestione”. Dopo il ricovero in ospedale viene dimesso, “perché avrebbe firmato lui”, ma di quella carta non c’è traccia. Il 2 ottobre in carcere  il giovane si aggrava e il giorno dopo muore nell’indifferenza burocratica di tutto il personale medico che si rimpalla le responsabilità






ISMAIL LTAIEF IL CUOCO DEL CARCERE DI VELLETRI

Tra le tre storie questa è l’unica che, per ora, non ha avuto un esito tragico. Ismail adesso è libero, proprio il 10 ha testimoniato davanti al tribunale di Velletri che sta giudicando i suoi ex carcerieri con l’accusa di avere lucrato sul vitto dei detenuti. Peccato che non abbia lavoro, che sia costretto a vivere in una tenda al freddo sulla spiaggia di Ostia e che ogni qual volta abbia provato a trovare un posto da pizzettaro, pasticciere o cuoco, attività in cui eccelle, si sia sentito ridere in faccia. E va considerato che, coloro che lui ha accusato, già dentro al carcere lo minacciarono di morte (“farai la fine di Cucchi”) dopo avere tentato prima di comprarne il silenzio con 15 mila euro. Chi lo protegge a Ismail da eventuali rappresaglie di qualsivoglia natura? Per fortuna almeno l’associazione radicale “il detenuto ignoto” di Irene Testa e l’avvocato Alessandro Gerardi, che lo assiste nel procecso contro i cinque agenti e la vice direttrice  in qualche maniera lo aiutano. Anche economicamente.
Ma la sua è veramente una storia emblematica di quanto in Italia nelle cerceri la rieducazione non paghi. Mentre la scuola del crimine forse sì, visto che quando lui scoprì che gli agenti si portavano a casa intere casse del cibo destinato ai reclusi gli proposero  di fare parte della cricca. Tanto perché (avranno pensato) mai un detenuto in Italia dovrebbe comprotarsi onestamente?


Dimitri Buffa


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