Marco Pannella sarà il primo a convenirne: fare lo sciopero della fame è un’impresa enormemente faticosa, dagli esiti incerti e dalle conseguenze assai pesanti, per il corpo e per l’anima.
Questo vale per un uomo di 82 anni, da oltre mezzo secolo protagonista della vita pubblica, creativo manipolatore del proprio corpo, non solo attraverso la rinuncia a nutrirlo, ma anche tramite mille travestimenti e travisamenti, colpi di genio e coup de théatre, maschere e sonorità, silenzio assoluto e logorrea incontinente. Ma se per Pannella è una impresa improba, e comunque dall’esito imprevedibile, pensate a cosa sarà stato lo sciopero della fame per Ennio Mango.
Tanto più che l’azione del leader radicale è stata accompagnata da quella di migliaia di detenuti, oltre che di familiari, avvocati, agenti di polizia penitenziaria, direttori di istituto e militanti politici. Ma mentre si svolgeva questa azione collettiva, destinata a sostenere la richiesta di un sacrosanto e indifferibile provvedimento di amnistia, la vita quotidiana del carcere, quella così ripetitiva e desolata, incubava mille altre sofferenze e preparava mille altre tragedie.
In carcere lo sciopero della fame è un fatto abbastanza frequente, che rientra nella casistica degli “eventi critici” (come il legnoso linguaggio della burocrazia penitenziaria definisce tutti gli episodi non ordinari), e fa parte di quello che potremmo chiamare l’uso del corpo da parte delle persone prigioniere. È questione che ha una sua peculiarità.
Per chi si trovi in libertà il corpo è uno strumento - ma uno tra molti di relazione con gli altri e col mondo, una potenzialità enorme, una chance ricca di pieghe e di infinite implicazioni. Per chi, invece, si trovi privato della libertà, il corpo è quasi (ma forse senza quasi) il solo medium, l’unico tramite, l’esclusiva misura della propria esistenza e del proprio ruolo sociale dentro l’ambito più ristretto e meno sociale che si possa conoscere (la cella, appunto).
Di quale repertorio si dispone per dirsi e comunicare? Di quali voci e quali scritture? Il proprio corpo e (quasi) solo il proprio corpo. Chi entra in una galera o in un Centro di identificazione e di espulsione troverà che il più deprivato dei prigionieri e il detenuto spogliato di tutto, prima di chiedere qualunque bene e qualunque risorsa, domanderanno innanzitutto di comunicare: e la prima, e spesso la sola, modalità di-comunicazione è rappresentata - appunto - dalla propria stessa fisicità. Parlano, in primo luogo, le sofferenze e le bocche sdentate, le spalle ricurve e le cicatrici, le tracce più chiare sulla pelle di antiche e recenti ferite e i tatuaggi vividi e quelli scoloriti.
È il linguaggio del corpo: e in molti casi, è il solo linguaggio dicibile e intellegibile. Se non si ha risposta, e quasi sempre non si ha risposta, ecco quel linguaggio del corpo farsi estremo e definitivo: il tagliarsi, il cucirsi (bocche e genitali), il tentare il suicidio, il darsi la morte. E lo sciopero della fame. Ennio Mango ne è morto, dopo quaranta giorni.
Salvo Fleres, garante dei diritti delle persone private della libertà per la Regione Sicilia e senatore del Pdl, ha molto opportunamente fatto riferimento al secondo comma dell’art. 40 del codice penale, dove si legge: “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Con ciò Fleres ha evidenziato quali possano essere, in tale circostanza (ma anche in mille altre simili), le responsabilità dell’amministrazione penitenziaria e della direzione del carcere nel non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire: ovvero, qui, il decesso di Mango. Lo sciopero della fame di Pannella è una forma di lotta non violenta per la vita (civile dignitosa) della popolazione detenuta. Lo sciopero della fame di Mango, non avendo potuto produrre vita e rispetto della legge, si è concluso con un’agonia. La morte di quel corpo è la morte, per l’ennesima volta, del diritto.
fonte: RISTRETTI.it
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