mercoledì 22 febbraio 2012

Nel freddo delle Vallette

 Torino 4 febbraio 2012

... ci troviamo a -15°....
oggi avevamo intenzione di partire con la battitura, purtroppo qui non dobbiamo solo combattere contro guardie ed ispettori a seguito, ma anche con la maggioranza delle detenute che per un motivo o per l'altro (perdita del lavoro, permessi, rapporti, chiusura della socialità) non trovano il coraggio di farsi valere.
Ti elenco subito la situazione di disagio , anzi, dire solo disagio è veramente poco, qui si tratta di condizioni altamente disumane... ci stiamo trovando senza acqua calda, perciò senza possibilità di lavarci decentemente, senza riscaldamento.... e senza aria: l'aria non è stata sgomberata dalla neve, non è stato gettato il sale.
 L'unica cosa che ci rimane è la cella, 2 metri quadrati , un vero cubicolo che ci racchiude in attesa che passi la giornata.
Una detenuta.


sabato 11 febbraio 2012

Orti al fresco a Pontedecino, Genova: un diario


Orti al fresco a Pontedecino, Genova: un diario

È partito Orti al fresco, un progetto che porta l’agricoltura naturale all’interno della casa circondariale di Pontedecimo. Le attività sono pensate per contribuire al reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti e delle detenute, che si occuperanno dell’orto e saranno coinvolti nelle fasi di progettazione, realizzazione, e nella cura necessaria per tenerlo in vita e fertile.
[vai al diario]

Il progetto è portato avanti dalle attiviste di Terra! Genova, che mettono a disposizione di questa idea le competenze affinate in anni di lavoro agricolo sulle alture di Vesima, e non solo.
L’idea non è nuova, in sé: il coinvolgimento nella cura della terra è sempre più diffuso in contesti in cui le persone vedono la loro libertà ristretta, perché si è dimostrato efficace e coinvolgente. Il metodo dell’agricoltura sinergica, alla base di questo specifico progetto, è poi un metodo di coltivazione che offre un approccio alla terra non tanto legato alla fatica fisica, pur essendo necessario un continuo lavoro per mantenerlo in vita, quanto più a un’attività di osservazione e cura: insomma una metafora delle relazioni fra essere viventi improntate alla premura e alla ricerca di benessere reciproco, perseguita soprattutto con l’attenzione verso l’altro da sé.
Lo scopo del progetto è realizzare un percorso volto all’educazione alla persona attraverso la “cultura ambientale”, e allo sviluppo di attività che aiutino il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, i quali saranno stimolati a prendersi cura di sé, degli altri e dell’ambiente.
Le detenute e i detenuti si alterneranno nella realizzazione dell’orto, nella cura, nella semina a nella raccolta; i prodotti serviranno per la mensa del carcere e per l’immissione in un circuito di gas locali.
Il progetto ha preso il via grazie all’adesione entusiasta e alla disponibilità della direttrice del carcere.
Per ora, Silvia e Francesca di Terra! stanno preparando il terreno e iniziando a seminare, insieme a Leonardo, Mario, Francesco e Giovanni.
Ecco il diario delle loro giornate.

I fase coltivazione di fave, aglio e piselli

Il primo incontro

Con zappe tridente, zappe piane e rastrelli abbiamo varcato per la prima volta il limite spinato del carcere di Pontedecimo, muraglia sicura di una città nella città. Una città antica in cui gli abitanti condividono la diversità e la distanza dalla realtà contemporanea da cui sono stati individuati come elementi fuori dal gioco ma potenziali giocatori di una partita, in cui non ci sono vincitori ma solo vinti che condividono l’anelare all’essere ricontestualizzati, ricollocati, ”riprogrammati” e rindividualizzati.
Questa città è costituita da case basse, con una densità abitativa molto, forse troppo, elevata, i cui prospetti sono regolari, di colore omogeneo e nebbioso, caratterizzati da aperture regolari prive di persiane o scuri ma arricchite da linee verticali le cui ombre segnano il tempo della vita di questa città fortificata. Dalle finestre sbarrate fanno capolino ridotti e bloccati colori dei panni stesi e delle plasticose provviste messe fuori per essere conservate meglio. Dopo aver lasciato in custodia documenti e cellulare una guardia ci accompagna all’area su cui svolgeremo l’attività. Il fazzoletto di terra è a ridosso del muro di cinta, che ripara dai venti di nord ovest, dal quale si supera la visione ristretta dei corridoi di passaggio. Da qui si riesce a oltrepassare con lo sguardo il limite e a esplorare quell’orizzonte involontariamente dimenticato, si può esplorare il paesaggio nella sua interezza, non frammentato da linee verticali che lo snaturano riducendolo a magre frange ombrose.
Iniziamo lo sfalcio dell’erba e dopo poco ci raggiungono sul pianoro verdeggiante Mario, Leonardo, Francesco e Giovanni, con pupille sbalordite dalla luce e dai colori autunnali che li circondano.
L’impatto è piacevole, prendiamo contatto tra di noi mettendoci in cerchio e raccontando loro di Terra!, di chi siamo, quello che facciamo e faremo insieme; loro ci raccontano i loro nomi e le loro esperienze in campo agricolo ed eccoci pronti per la prima giornata di lavoro.
Iniziamo a rastrellare il terreno mettendo da parte l’erba dello sfalcio che poi verrà usata come pacciamatura appena sarà seccata bene. Ci avviciniamo così alla terra, ai suoi profumi e alla sua faticosa altezza. La sensazione è piacevole. Siamo tutti incuriositi, interessati, attivi e contenti di stare all’aria aperta insieme. Rimuoviamo le zolle di terra e le battiamo bene; l’area che abbiamo a disposizione è bella grande 17m X 5m. Lavorando scopriamo pian piano le caratteristiche di ciascuno di noi, la musica delle zappe che abbracciano la terra fanno da sottofondo al nostro vociare curioso. Accaldati da un insolito sole di gennaio ci fermiamo soddisfatti per una meritata pausa.
Francesco avverte un po’ di labirintite, ci spiega che stando sempre dentro trovarsi fuori per lungo tempo è un impatto notevole, sorride e ci chiede di comunicargli con precisione i giorni nei quali svilupperemo le attività di orto… non vuole perdersene una! ..che felicità!
Si ricomincia a lavorare e a parlare lavorando, proprio come in un qualsiasi orto, si parla degli schemi naturali e si danno nozioni per la preparazione del terreno, cercando di stimolarli all’osservazione dell’ambiente naturale, ci accorgiamo che fanno un po’ di fatica a guardarsi intorno. Si coglie dalle frasi di ognuno interesse e stupore per tutte le cose dette; le frasi si alternano:
“…è davvero interessante…“
“…a queste cose non ci avevo mai pensato…”
“…quante cose ci sono da imparare…”
Scorgiamo una bella luce negli occhi di tutti noi, sorrisi, discorsi, ognuno parla di sé e pian piano si avvicina il termine dell’attività.
Chiudiamo con un cerchio per raccogliere le sensazioni di tutti, le prime impressioni sono davvero piacevoli, tutti rimarcano di essersi trovati bene e a proprio agio.
Siamo contente, il primo incontro ci ha arricchito molto e ci ha spinto a riflettere su come portare avanti meglio le cose. Siamo cariche di idee e nuove proposte da sviluppare!

Il secondo incontro

L’obiettivo del secondo giorno di attività è di preparare il terreno.
Dopo aver svolto il rituale procedimento di entrata nella città fortificata incontriamo Leonardo, Mario e Giovanni che ci aiutano a portare sul pianoro tutti gli strumenti necessari all’attività. Francesco non è presente perché non si sente molto bene e deve stare al caldo. Con una persona in meno iniziamo l’attività non prima di aver fatto il cerchio in cui ci siamo raccontati i fatti di attualità della settimana e aver illustrato l’attività del giorno.
Il clima tra noi è davvero piacevole, abbiamo superato decisamente ogni barriera. Con zappe alla mano iniziamo a lavorare e a chiacchierare.
Le nostre voci echeggiano contro il muro di cinta che restituisce frammenti di risate e parole alle case noiosamente abitate intorno a noi. Ed ecco affacciarsi amici e conoscenti dei ragazzi. Alcuni, più timidi, ci sbirciano da dietro le sbarre e altri, meno timidi, iniziano a interagire con noi chiedendoci cosa facciamo e quando sarebbe stato il loro turno. Alcuni sostengono l’attività lanciandoci dalle finestre bottiglie d’acqua con bicchieri di plastica ben fasciati in fazzolettini di carta bianchi. Ci stiamo espandendo.
Tra un colpo di zappa e l’altra vengono fuori le caratteristiche specifiche di ciascuno dei partecipanti all’attività. Con Leonardo, di origine domenicana, intoniamo una canzone cubana che parla di un giardiniere che coltiva gardenie che cura come se fosse il suo primo amore. Il canto echeggia in ogni angolo del carcere, da commuoversi davvero!
Giovanni primeggia in quanto a lavoro, ha sempre lavorato nel campo edile, ha mani esperte e lavoratrici e ci vuole dimostrare le sue capacità, chiede a Francesca se quando uscirà da lì può andare a lavorare con lei. Mario, è chiamato zio dagli altri, e sembra essere il più saggio e anche il più esperto della vita circondariale, ci racconta del carcere di Massa e di quello di Chiavari.
Concludiamo la giornata soddisfatti del lavoro fatto, ci voltiamo a contemplarlo e ci accorgiamo di come il paesaggio sia modificato e di come fossimo riusciti a inserire l’elemento della cura e dell’amore in un contesto disabituato ad accoglierlo. Ci salutiamo con la prospettiva di seminare fave, piselli e aglio l’incontro successivo.

Il terzo incontro

Ci ritroviamo tutti e sei per il terzo incontro. Francesco subito si scusa dispiaciuto per l’assenza all’incontro precedente e subito lo coinvolgiamo raccontandogli il lavoro svolto. Ci attrezziamo per l’attività della giornata: la semina. Facciamo conoscere i semi e la preziosità insita che possiedono, come dispensatori di vita e memoria. Non stanno nella pelle.
Ci siamo suddivisi i compiti: Giovanni e Leonardo preparano i solchi, Mario con terriccio in mano prepara il sottofondo sul quale Francesco adagia con cura e precisione i semi.
Prima di iniziare la semina andiamo tutti in spedizione acqua. Subito ai piedi del muro di cinta è presente un attacco idrico, scopriamo la presenza di acqua aprendo il rubinetto, è Leonardo l’attivatore, che ride come un bambino giocando ad aprire e chiudere il rubinetto tentando di bagnare noi e i suoi compagni.
All’attacco colleghiamo una manichetta lunga quasi 50 m che permetterà di irrigare i campi che dopo poco avremo seminato.
Iniziamo con il seminare l’aglio, che prima abbiamo preparato separando gli spicchi piccoli, utili da utilizzare in cucina, da quelli grandi che avremmo utilizzato. Poi è il turno dei piselli e dopo ancora delle fave.
Tra una semina e l’altra facciamo una pausa durante la quale Francesca offre a tutti dei conquat di cui Giovanni l’incontro precedente aveva detto di sentire la mancanza. Stupito del regalo Giovanni esclama “che bello ti sei ricordata di me!”. Era quasi commosso e noi anche.
Mentre mangiamo i conquat un uomo dalla finestra sbarrata ci lancia una bottiglia di plastica con dentro un buon caffè caldo che versiamo dentro tazzine da caffè di plastica. Parliamo, ci confrontiamo sul lavoro fatto e ci accorgiamo che il tempo per concludere la semina è poco. Ci rimettiamo al lavoro, la guardia ci segnala che occorre concludere con anticipo l’attività. Di buona lena ricopriamo i semini. I ragazzi vengono richiamati, devono rientrare.
Promettiamo loro che avremmo pensato noi a finire di ricoprire i semini e a irrigare. Ci salutiamo, tutti un po’ dispiaciuti per il termine dell’attività. Ci diamo appuntamento alla fine di febbraio per provvedere al rincalzo del terreno e per controllare la crescita delle piantine. Rimaniamo sole a finire il lavoro, e a sistemare le ultime cose. Dopo poco ci sentiamo chiamare, era Giovanni che dalla finestra della sua cella che si affaccia sul “nostro” terreno ci saluta nuovamente, ci ringrazia e ci promette di controllare da lì la crescita delle piantine. Siamo contente e soddisfatte.
Silvia e Francesca

fonte: http://www.terraonlus.it/genova

mercoledì 8 febbraio 2012

Associazione Antigone - Per i diritti e le garanzie nel sistema penale - Accuse derubricate, salvi gli agenti dei maltrattamenti al carcere di Asti. Protesta l’associazione Antigone: “ingiustizia è fatta”, di Luca Rastello, Repubblica, 31 ottobre 2012

Associazione Antigone - Per i diritti e le garanzie nel sistema penale - Accuse derubricate, salvi gli agenti dei maltrattamenti al carcere di Asti. Protesta l’associazione Antigone: “ingiustizia è fatta”, di Luca Rastello, Repubblica, 31 ottobre 2012

OSSERVATORIO sulla REPRESSIONE: Il Sistema penitenziario, tra speculazione finanzi...

OSSERVATORIO sulla REPRESSIONE: Il Sistema penitenziario, tra speculazione finanzi...: Se 30 anni fa sul tema della repressione e delle politiche penitenziarie era prioritario un lavoro di informazione o di controinformazion...

Gerry Giuffrida , una ragazzo come tanti


Alcune settimane fa una persona che stimo molto, Ebe Quaranta, mi parlò della situazione drammatica di un ragazzo, che da più di quattro mesi stava in isolamento nel carcere di Opera. E le cui condizioni fisiche, e soprattutto mentali, erano arrivate al limite. Fui naturalmente d’accordo con lei che bisognava saperne di più e parlarne. E lei mi mise in contatto con la madre, Angela Fuma.

Il ragazzo si chiama Gennaro Giuffrida, detto “Gerri”. Ha 32 anni ed è nativo di Brindisi. Di lui la madre dice “Gerry, un ragazzo come tanti, sognatore, appassionato di moto da strada,determinato ,socievole ,con un forte temperamento, facilmente influenzabile ,come tutti ha anche degli aspetti meno piacevoli ,come l’ essere superbo ,prepotente nei confronti della vita , ma anche insicuro su quello che riguardava l’ aspetto della sua famiglia, solo dopo aver subito il fatto e con grande rammarico (compiango i famigliari della vittima), ha capito il vero valore affettivo della vita dato che di figli ne ha due e una compagna che gli è accanto”.

Lo stesso Gerri nella lettera che ha inviato al Presidente della Repubblica scrive “Sono sempre stato un tipo debole, incapace di dire no alla gente che mi chiedeva piccoli favori, ma questa mia bontà mi ha portato ad una vera e propria tragedia. Da quando avevo 17 anni ho iniziato a prendere psicofarmaci per ansia e attacchi di panico, ma la cosa che mi faceva stare ancora meglio era l’amore della mia famiglia. Nel tempo, però, gli psicofarmaci che prendevo aumentavano. Purtroppo il troppo amore della mia famiglia ha peggiorato la mia situazione, perché anche se facevo dei piccoli sbagli, loro mi proteggevano fino alla morte”. Il riferimento all’ansia, agli attacchi di panico e agli psicofarmaci, aiuta a comprendere la particolare fragilità di questo ragazzo, e la situazione delicatissima che già viveva, che poi il carcere, e il modo in cui è stato fatto valere nei suoi confronti, ha enormemente esasperato. In carcere infatti, così denunciano Gerri e la madre, sono avvenuti episodi brutali e intollerabili che sono andati a colpire una psiche già fragile ed insicura.

Il mio primo intento era pubblicare la lettera integrale che Gerri ha scritto al Presidente della Repubblica, nella quale ricostruisce tutta la sua vicenda, raccontando di come si svolgeva la sua vita, e di cosa lo ha condotto in carcere, per poi parlare di come si è svolta in buona parte la sua detenzione. Ma ho deciso di procedere in modo diverso. Essendo una lettera molto lunga… e dicendo la madre, in una lettera di accompagnamento, una serie di cose gravissime. Mettendo tutto insieme, si rischiava che non fosse data dovuta attenzione ad ogni aspetto della questione.

E le cose che scrive la madre sono troppo gravi per metterle in appendice ad una lunga lettera, rischiando che adesso qualcuno non le consideri come meritino.

Quindi procederò così.. inizierò citando alcuni stralci finali della lettera di Gerri, per poi pubblicare in buona parte la lettera che la madre Angela Fuma, mi ha inviato. In una successiva (e vicina) occasione, pubblicherò la lettera integrale che Gerri Giuffrida ha inviato al Presidente della Repubblica dove ricostruisce ciò che lo ha portato in carcere.

Che poi, ciò che veramente conta, ai nostri fini, è l’ingiustizia che Gerri subisce, a prescindere. La subirebbe anche se non fosse innocente. Lui e la famiglia affermano che è innocente, e noi diamo voce alla loro voce che afferma un’altra verità sostanziale rispetto a quella processuale. Ma su questo punto non possiamo certo dire noi ciò che è realmente avvenuto, possiamo solo augurarci che le ulteriori prove che adesso sembrano essere “utilizzate”, vengano prese in considerazioni, magari portando ad una riapertura del processo.

Ma quello su cui non facciamo sconti e su cui chiediamo chiarezza e giustizia totale.. E’ IL RISPETTO DELLA DIGNITA’ UMANA DI GERRY GIUFFRIDA. Il dovere morale che si faccia chiarezza sulla sua vicenda processuale, che si sappia se abbia subito brutalità intollerabili, e che, soprattutto si intervenga ORA, perché ora si comprenda la situazione che sta vivendo Gerri, e si faccia in modo che questa non porti a un punto di non ritorno.

Gerri è in isolamento da mesi. Le sue sensazioni di panico ed ansia, e di debilitamento fisico, frutto di un percorso carcerario che è stato un calvario, rischiano di esplodere nella soffocante situazione dell’ isolamento che gli impostogli nel carcere di Opera. Le sue lettere ormai rivelano disperazione e pensieri suicidi.

Bisogna fare in modo che la sua vicenda diventi pubblica.

E pensavo anche che si organizzare un invio collettivo di lettere a Gerri, per sostenerlo psicologicamente ed emotivamente.

Adesso pubblicherò un brano finale tratto dalla lettera di Gerri al Presidente della Repubblica, e poi la lettera che la madre mi ha inviato, una lettera drammatica e disperata che racconta cose che, se fossero confermate, rappresenterebbero un’altra pagina nera della realtà del carcere in Italia.

La prossima volta pubblicherà per intero la sua lettera al Presidente della Repubblica.

Comunque la si pensi, questo ragazzo si sente sole e sta soffrendo. Stiamogli vicino.

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–Uno dei frammenti finali della lettera di Gerri Giuffrida al Presidente della Repubblica..

“Cinque mesi fa la Cassazione mi confermò la pena, e riuscirono ad ammazzarmi per la terza volta. Aspettavo solo i carabinieri che venissero a prendermi, e addirittura li chiamai io perché tardavano, e quella attesa, nel vedere la mia compagna e mio figlio forse per l’ultima volta, era tormentosa. Decisi che in carcere l’avrei fatta finita.

L’8 giugno mi portarono nel carcere di Villa Fastiggi, dove, come in ogni altro carcere, trovi appuntati che ti trattano come ad un animale. E a me non andava giù, perché ritenendomi ancora innocente, non potevo accettare le cose che loro mi chiedevano di fare, e quindi venivo punito.

Dopo una decina di giorni mi trasferirono al carcere di Fermo. Carcere infernale dove non c’è neanche lo spazio per fare due passi all’aria. I dottori mi visitarono. In dieci giorni avevo perso circa 8 kg, avevo attacchi di ansia e panico, e chiamavo sempre gli appuntati perché chiamassero il dottore, che si trovava solo dalle 11 del mattino alle 19 della sera. Poi se chiami una guardia e dici che stai male, c’è qualcuno che addirittura ti risponde, che quando muori poi ci si pensa.

Ora sono arrivato a perdere 25 kg in 4 mesi e 15 giorni, e il mio avvocato ha chiesto un periodo, che va dai sei mesi ai tre anni, agli arresti domiciliari, in modo da potere essere curato, dato che sono adesso 14 anni che, oltre all’aiuto della terapia, ho bisogno della gente a me vicina. Sto malissimo e piango e basta. Non ho più voglia di vivere. Non riesco nemmeno a vedere la televisione perché ci sono solo cattiverie.

E’ venuto un mio medico di parte, che mi ha visitato e ha descritto le mie precarie condizioni fisiche. Il magistrato ha chiesto il parere al dirigente sanitario del carcere che non mi ha mai visitato.”

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–Lettera della madre di Gerri Giuffrida

(…..) Dopo la condanna definitiva della Cassazione è stato portato al carcere di Pesaro provvisoriamente, perché lì non tengono detenuti con condanne definitive superiori ai dieci anni. La stessa settimana è stato trasferito al carcere di Fermo. Lì fu un periodo infernale, cominciò a dimagrire vertiginosamente. Mandai subito la psichiatra accompagnata da una psicologa. Lo trovarono gravissimo, sia fisicamente che psicologicamente. Non aveva più muscolatura e non reagiva più agli stimoli (un marocchino nella cella si prese cura di lui, cercava di farlo mangiare cucinandogli un po’ di riso e lo copriva perché lui si stava lasciando morire).

Quindi accertarono che avrebbe potuto fare un gesto inconsulto. Subito dopo, il nostro perito ha fatto una relazione che certificava le condizioni di mio figlio. L’avvocato ha mandato l’istanza con questa relazione al Tribunale di sorveglianza, chiedendo per un breve periodo i domiciliari, per dargli le giuste cure, ma l’istanza è stata rigettata per ben due volte. Alla terza volta lo hanno trasferito a Roma, in un carcere dove c’è un reparto in cui curano i detenuti ammalati. Il trasferimento avvenne a sua insaputa. Lo svegliarono di notte, dicendogli di vestirsi che doveva essere trasferito. Mio figlio fu preso dal panico, cominciò a piangere e a supplicare le guardie di lasciarlo lì perché stava vicino alla compagna e a suo figlio, e aveva paura di restare solo. Ma per tutta risposta lo picchiarono senza pietà, a calci e pugni in testa, e a calci nello stomaco e nei fianchi. E senza soccorrerlo lo portarono in quello stadio pietoso a Regina Coeli. Era messo così male che, quando arrivò, gli fecero firmare che si trovava già in quello stato e che loro non c’entravano niente. Poi lo chiusero per due giorni nudo per terra, in un buco al buio. Lì dentro non si respirava, mancava l’aria. Ci ha raccontato che cercava di respirare da una fessura. E a me che sono la madre, ogni volta che lo ricordo mi sanguina il cuore. Quando siamo stati avvisati per vie traverse del suo trasferimento, siamo partiti subito io e una mia amica per andarlo a trovare. Ci avevano preavvisato che non l’avemmo trovato in buone condizioni e che le guardie c’erano andate giù pesanti. Arrivammo a Roma col cuore in gola, disperate. Ma io non entrai, perché avevamo anche il bambino che aveva solo tre anni. Non potevamo fargli vedere il padre in quelle condizioni, perché mia nuora aveva capito la situazione critica. Puoi immaginare con che angoscia rimasi fuori. Infatti, quando mia nuora entrò vide che era pieno di ematomi giganti in tutte le parti del corpo. La testa non si riconosceva, la faccia rovinata, sanguinava ancora dalla bocca, e tremava e piangeva. Non poteva muoversi né mangiare.

Avevamo deciso di denunciare tutto, ma siccome hanno minacciato mio figlio che avrebbe passato, in quel caso, guai ancora maggiori, visto che sarebbe dovuto tornare al carcere di Fermo, timorosi decidemmo di non denunciare più. Un mese dopo l’hanno riportato a Fermo. Quel mese non è stato neanche un istante bene, non facevano altro che fargli raggi dalla testa ai piedi, e imbottirlo di medicinali, anche per la bronchite, che gli avevano fatto venire tenendolo in quello stato. Quel mese si è cibato solo di medicinali. Potete immaginare le conseguenze. Una volta arrivato al carcere di Fermo, le condizioni non miglioravano. Ormai era arrivato a pensare 49 kg tutto vestito, perdendo 25 kg del suo peso iniziale. Per cui decisero di trasferirlo ad Ascoli Piceno (sbattuto da un carcere all’altro come fosse un sacco di patate), dove sarebbe dovuto essere curato dato che lì c’erano i medici tutto il giorno (medici mai visti o quasi). Qui le condizioni peggiorarono ulteriormente, cominciarono ad aumentare le fobie, gli attacchi di panico, ed il bisogno d’aria, perché si sentiva soffocare. Per la disperazione ha scavato nel muro, ma subito dopo si è reso conto di quello che aveva fatto, ed i suoi compagni di cella hanno tentato di coprire il danno con una tenda, ma durante la perquisizione quel buco è stato scoperto e lui è stato accusato di evasione. Lui non voleva scappare dal carcere, anche perché sapeva che era impossibile. E soprattutto c’era la speranza, se tutto andava bene, che da lì a poco lo avrebbero preso al carcere di Gorgona, dove avevano capito i suoi problemi ed erano disponibili ad aiutarlo.

Quindi, non considerando i problemi di mio figlio, lo sbattono ad Ancona, nel carcere di Montacuto. Ogni spostamento per lui era un trauma. Questo carcere era invivibile, si stava in condizioni pietose e lui chiedeva continuamente di essere spostato, altrimenti l’avrebbe fatta finita. Grazie ai nostri frequenti colloqui e alle lettere, siamo riusciti a togliergli parzialmente questa idea dalla testa, anche se nella sua mente il pensiero ricorre continuamente. Il suo sfogo è stato quello di danneggiare la cella, forse sperando di farsi spostare da quel carcere infernale. Viene nuovamente accusato di danneggiamento di beni impropri, e spedito al carcere di Opera-Milano. Qui viene messo in punizione, con sei mesi di isolamento con il 14 bis. E la sua condizione ora è davvero drammatica. Nelle lettere continua scrivere che sta malissimo, e alla sua compagna continua a dire che si vuole ammazzare, che non ha senso vivere così. Noi siamo angosciati e viviamo con il terrore che da un momento all’altro possiamo ricevere una brutta notizia.

Voglio salvare mio figlio. Vorrei poterlo tenere a casa, per dargli le cure di cui ha bisogno, perché con il nostro amore potrà venire fuori da questa depressione, pur scontando la sua pena. Se non è possibile tenerlo ai domiciliari, aiutatemi per una comunità riabilitativa idonea.

Non si può lasciare morire così un ragazzo tanto fragile, e per giunta innocente. Cosa possiamo fare di più di tutto quello che abbiamo fatto? Perché nessuno ci capisce?

Vi supplico. E’ il cuore di una mamma che vi scrive. Mio figlio se continua a stare in carcere muore. Aiutatemi a salvarlo.

Angela Fuma (Le Urla dal Silenzio)



Sono la madre di un ragazzo come molti di voi. 
Vorrei raccontare la storia di mio figlio Gerry, attualmente recluso in un carcere, sottoposto a regime 14-Bis.
Il termine 14-Bis è stato introdotto per eliminare la scomoda parola “ISOLAMENTO”.
Che cos’è il 14-bis? 
È difficile rispondervi!
 È come se mi chiedeste cos’è l’inferno. 

È un regime infame che crea stress e tensione, con cui perdi totalmente la gestione della tua vita, spesso anche dei tuoi pensieri. Ti spogliano della tua identità, diventi a tutti gli effetti un
fantasma.
 
Ti levano lo specchio per non specchiarti così per farti sentire un’ombra, ti spogliano la cella di tutti i tuoi oggetti, ti censurano la posta per toglierti la solidarietà esterna e l’intimità dei tuoi sentimenti. 

Ti isolano, ti emarginano come i dannati all’inferno.

Voglio leggervi alcune righe tratte dalla lettera di grazia che mio figlio ha inviato al presidente della repubblica Napolitano.

Mi chiamo Giuffrida Gennaro e sono nato a Brindisi nel 1979, in una famiglia onestissima da generazioni e stimata da tutti, per la correttezza e la bontà.
 Sono sempre stato un tipo incapace di dire di no alla gente che mi chiedeva piccoli favori, ma questa mia bontà mi ha portato ad una vera e propria tragedia.
 Da quando avevo 17 anni ho iniziato a prendere psicofarmaci per ansia e attacchi di panico, ma la cosa che mi faceva ancora stare meglio era l’amore della mia famiglia.
 Una sera di aprile di 5 anni fa, la mia vita è cambiata, sono stato vittima di un tranello, una persona mi ha trascinato in una storia più grande di me, quando ho capito ciò che stava accadendo, ho fatto l’impossibile per evitare la tragedia, che poi purtroppo si è verificata.
 Nonostante io fossi incensurato, e nonostante a io abbia dato un grosso contributo alle indagini, raccontando tutto per filo e per segno, e risultando attendibile, sono stato processato con un capo d’imputazione ingiusto, e condannato nei 3 gradi di giudizio, ovvero 1°grado, appello, e cassazione, a scontare 16 anni di reclusione. Tutti mi hanno giudicato credibile, perché quello che ho de
tto è stato controllato ed è risultato vero, ma nessuno ha voluto studiare e soffermarsi sulla malattia della mia anima e della mia mente, che mi ha portato a non avere il coraggio di contrastare questa persona malvagia, già nota alle forze dell’ordine.
Da allora che sto malissimo, adesso la mia situazione mentale e fisica è precipitata, sono dimagrito 25 kg, adesso ne peso 49, con accenno di anoressia, sono giovane e invece la mia vita è tutta dipendente da farmaci e sedativi, è finita se lei non mi aiuterà, spero sig. presidente che solo lei, che ha la saggezza, l’esperienza e la cultura capisca, che non sto imbrogliando nessuno.

Questo è un frammento, di quello che mio figlio ha scritto al presidente, in seguito al mancato ricevimento di aiuto da parte della legge, che dovrebbe garantire giustizia. Abbiamo deciso in tale mancanza, di sensibilizzare la coscienza ed il cuore della gente con ogni mezzo di comunicazione possibile, grazie a Facebook, Gerry, può ricevere il sostegno morale della gente iscritta al gruppo “SOSTENIAMO GERRY” .
Io Angela Fuma, e tutta la mia famiglia ci impegneremo a far giungere i vostri messaggi di sostegno direttamente a Gerry e gradiremmo che il vostro supporto, naturalmente spontaneo, si protragga nel tempo, affinché sia fatta giustizia nei confronti di Gerry. 
Vi invito ad iscrivervi al gruppo “SOSTENIAMO GERRY” senza alcun tipo di impegno, se non quello di scrivere un pensiero a mio figlio.VI RINGRAZIO DELL’ATTENZIONE.

La madre di Gerry

fonte: Facebook - Sisteniamo Gerry