sabato 17 marzo 2012

Da inizio anno al 17 febbraio scorso sono otto i detenuti che si sono tolti la vita e 21 è il totale dei decessi avvenuti nelle carceri, di cui 9 per cause ancora da accertare. Nel 2011 si sono suicidati 63 detenuti (38 italiani, 25 stranieri) su un totale di 186 persone decedute per cause naturali o da accertare (in 23 casi sono in corso indagini giudiziarie).
Dal 2000 al febbraio 2012, si sono uccisi 700 detenuti e ammonta a 1.954 il totale dei “morti di carcere”. Con l’obiettivo di prevenire e ridurre i tentativi di suicidi nelle carceri, con provvedimento del 2 marzo scorso, il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, ha disposto con effetto immediato la riattivazione dell’Umes, l’Unità di monitoraggio degli eventi di suicidio, che da direttore dell’ufficio studi del Dap aveva attivato nel 2001, anno in cui si toccò un picco di 69 casi di suicidio. L’Unità ha l’incarico di verificare l’applicazione e l’efficacia delle direttive emanate dal Dipartimento, a partire dal 2000 per la prevenzione del fenomeno.
Il carcere fa vittime anche tra le fila della Polizia Penitenziaria: dal duemila ad oggi, 85 per suicidio e 6 per incidenti sul lavoro. I numeri sono della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, che ha approvato nei giorni scorsi il “Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia”. Con la presidenza di Tamburino, l’unità di monitoraggio è composta da Simonetta Matone, vice capo dipartimento, Luigi Pagano, vice capo dipartimento, Calogero Piscitello, direttore generale del personale e Pietro Buffa, direttore della casa circondariale di Torino. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’Umes “è uno strumento che serve, ma una buona efficienza penitenziaria - sottolinea all’Adnkronos - può avere una grande capacità dissuasiva rispetto ai tentativi di suicidio. Dobbiamo per esempio facilitare la possibilità per i detenuti di telefonare e parlare con i propri parenti, nei momenti in cui ne hanno bisogno”. “Un detenuto al quale viene in mente di togliersi la vita ed è disperato - sottolinea Gonnella - e telefonando a una persona che lo ascolta, può essere una madre o una moglie, potrebbe svelare quella sua disperazione oltre che trovare elenenti che possano dissuaderlo dal proposito. Se invece la telefonata si fa solo la mattina alle 10 -conclude il presidente di Antigone- questo non potrà mai avvenire”. (Adnkronos - 12 marzo)



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