giovedì 13 ottobre 2011

DON ALESSANDRO GIAMBRA 25 anni da cappellano nel carcere minorile di Caltanissetta


13-10-2011
Mi sono sempre chiesto, da quanto sono sacerdote e cioè da più di venticinque anni ormai, se il mio ministero presbiterale possa essere compreso o ricompreso, in maniera speculare, tramite il servizio che svolgo, da quanto ho ricevuto l’ordine sacro del sacerdozio, di cappellano presso il carcere minorile di Caltanissetta, e di volontario presso il carcere Malaspina del capoluogo nisseno.
Questa missione, questo servizio, questo farmi Cristo per gli altri e accogliere Egli stesso nel viso e nei bisogni dei detenuti, è qualcosa che mi accompagna nel mio essere presbitero, nel mio essere uomo. Mi accompagna e ogni anno, con lo scorrere delle settimane, dei mesi, del tempo, mi fa sempre più conoscere una realtà per la quale la comunità ecclesiale, spesso con opera di supplenza, e la società civile con annesse Istituzioni, devono considerare con sempre maggiore attenzione e sforzo.
La situazione delle carceri in Italia è davvero drammatica: lo dicono le statistiche, lo confermano il lavoro e la qualità della vita e dei detenuti e della polizia penitenziaria. Raramente, e spesso male, si investono risorse economiche per migliorare la permanenza in carcere dei detenuti, i quali certamente devono scontare le pene per i loro reati con la riduzione della loro libertà personale, ma rimangono uomini che devono essere accolti, rieducati, in alcuni casi educati per la prima volta; uomini che spesso sono immigrati, extracomunitari che non conoscono la lingua italiana, persone che in una situazione di vita sicuramente “anormale” hanno tuttavia bisogno di sentire i propri affetti vicini.
Uomini ai quali e per i quali va annunciata la vera libertà di Cristo in un contesto in cui la libertà umana, materiale, a volte psicologica, viene meno. Pur nel clima di generalizzata crisi politica, economica, sociale, antropologica, non si può e non si deve dimenticare la parte, o le parti, più deboli della società. Proprio in questi momenti occorre uno sforzo pensante e d’azione da parte della Chiesa per mettere al centro la sofferenza di migliaia di uomini (la popolazione carceraria italiana si aggira intorno alle 70 mila unità) che sono persone da accettare e alle quali va data una seconda, a volte una terza o quarta, possibilità di cambiare, magari scoprendo o riscoprendo la fede. La Chiesa italiana in questo decennio “investito” per l’educazione deve continuare a esprimere e a esprimersi con il volto di Cristo, denunciando con la forza dell’onestà, della ragione, della carità intelligente i mali che affliggono la società del nostro tempo.
Nelle carceri, e ne sono testimone ormai da anni, vengono meno le possibilità minime di relazione con l’esterno (impossibilità di chiamate telefoniche per via di mancanza di danaro o di interpreti nel caso di extracomunitari che non conoscono l’italiano); la possibilità di vestirsi in maniera dignitosa; la possibilità di avere delle relazioni veramente private con i propri cari; la possibilità di un reinserimento tramite lavori a progetto, cooperative...; la possibilità di ricevere aiuti economici e di altro tipo dalle famiglie; la possibilità di essere difesi dinanzi al giudice da avvocati con esperienza.
Posso rileggere così, alla luce della mia consapevolezza di servizio e missione verso i detenuti, il ministero presbiterale dove il mio essere guida, il mio essere pastore, il mio annunciare e testimoniare la buona novella si traduce “solamente” e “semplicemente” nel farmi prossimo ad alcuni fratelli sfortunati, che hanno sbagliato; tramite l’annuncio della Parola di salvezza e il sostegno per alcuni bisogni “minimi” che in questo Occidente “opulento” e tante volte distratto, sembrano distanti anni luce. La comunità ecclesiale ripensi e si appropri con maggiore forza di quel servizio per i bisognosi facendosi voce forte di chi spesso, o sempre, non possiede più né la voce né la forza necessaria.
* da “Avvenire”
fonte: http://notizie.radicali.it/

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