mercoledì 12 ottobre 2011

La giustizia dovrebbe riconoscere i suoi errori






l Secolo d'Italia Mercoledì 5 ottobre 2011

La storia 
di Aldo Scardella, 
cosa vuol dire morire di carcere
Una detenzione ingiusta di 185 giorni, l'isolamento, nel racconto del fratello Cristiano

Di Valentina Marsella

"Le ragioni per cui Aldo fu sottoposto a torture, sfociate nell'aberrante regime di isolamento, allora mi sembravano incomprensibili. Mentre oggi mi appaiono in qualche modo evidenti. Lo scopo era quello di sottoporlo ad una sofferenza mentale tale da indurlo ad autoaccusarsi di una fatto che non aveva commesso. Per quale ragione ciò sia accaduto è ancora in parte da chiarire, anche se è indubbio che i comportamenti tenuti non sono da addebitare a mera casualità, ma rispondevano a precise esigenze volte a salvaguardare ad ogni costo obiettivi il cui soddisfacimento comportava il sacrificio di un innocente. Aldo, però, consapevole della sua innocenza, non si è mai autoaccusato, ma con grande dignità e coraggio, come del resto era nel suo carattere, in quei sei mesi di carcere duro, ha sopportato. Alla fine, purtroppo, il suo fisico e la sua mente non hanno più retto e la conseguenza è stato il suicidio".
La storia di Aldo Scardella, vittima di un errore giudiziario che gli è costato la vita, è racchiusa in uno stralcio della lettera accorata scritta dal fratello Cristiano, che ancora, dopo oltre 25 anni dalla tragica vicenda, vuole gridare all'ingiustizia per ristabilire l'immagine del ragazzo cagliaritano che ancora oggi fa notizia. In molti ne hanno parlato: uno spettacolo teatrale, il libro di Vittorio Melis 'Il
dramma di un innocente', ma soprattutto il documentario '185 giorni' di Paolo Carboni, realizzato da un'idea di Cristiano. Si tratta dei 185 giorni di carcere ingiusto subiti da Aldo, un isolamento che non gli ha più permesso di rivedere il mondo oltre le sbarre.
Tutto comincia a Cagliari, il 23 dicembre 1985: in un supermarket viene ucciso Giovanni Battista Pinna, il titolare. Passa una settimana e in carcere, con l'accusa di omicidio, finisce il giovane, allora 24enne. Aldo vive nei pressi del negozio e sulla strada che conduce dal market all'abitazione, viene ritrovato il passamontagna di uno dei rapinatori. Gli esami del guanto di paraffina, così come la prova di annusamento sul passamontagna, risultano negativi. Anche gli altri indizi a suo carico sono deboli, ma il destino per il ragazzo è in agguato. Il pm e il giudice istruttore sono convinti che Scardella è colpevole e lo tengono in isolamento per sei mesi. Passa diverso tempo prima che il ragazzo possa incontrare il suo difensore, l'avvocato Gianfranco Anedda, e il primo colloquio con i familiari viene concesso solo il 10 aprile del 1986. Aldo è solo, i giorni sembrano non passare mai e la sofferenza cresce minuto dopo minuto, tanto che fa istanza ai magistrati affinchè gli venga revocato il regime di isolamento, ma è del tutto inutile. Il 2 luglio 1986 Aldo Scardella viene ritrovato impiccato nella sua cella di Buoncammino. Ma sul suicidio Cristiano ha dei sospetti: "L'autopsia sul corpo di mio fratello - racconta - riscontra la presenza di metadone, ma le cartelle cliniche del carcere dicono che lui non era sottoposto ad alcuna terapia". Una prima svolta arriva nel 1996: nuove indagini sull'omicidio portano finalmente alla condanna, nel 2002, di Walter Camba e Adriano Peddio, dichiarando Aldo totalmente estraneo ai fatti. Nonostante ciò, nessuna giustizia è fatta per il giovane. Nessun risarcimento per i familiari, che presentano una serie di esposti. "E temo che anche l'ultima denuncia che ho presentato - spiega Cristiano Scardella - finisca come sempre in un'archiviazione".
Per Cristiano, Aldo è stato "un capro espiatorio, scelto per coprire fatti e persone che era meglio non venissero fuori. Fin da subito, credo si sapesse chi fossero i colpevoli, ma era più semplice mettere al muro un ragazzo indifeso, piuttosto che sollevare un vespaio scomodo per molti. Qualcuno ha anche sostenuto che Aldo aveva simulato il suicidio per uscire dall’isolamento, ma si sbagliava". Quella del giovane cagliaritano, è una delle tante morti in carcere di cui ancora non si conosce la mano assassina, tanto che a 'sposare' la causa di Cristiano Scardella, sono in molti, in testa l'Associazione 'Il Detenuto Ignoto'. Arrestato sulla base di "semplici sospetti qualificati dagli inquirenti come indizi", fa notare Cristiano, "Aldo ha la stessa altezza di uno dei banditi, circa un metro e settanta, ma all'epoca metà della popolazione maschile in Sardegna è di quella statura. Inoltre i banditi, quando fuggono dal negozio in cui rimane ucciso il commerciante, prendono la direzione, secondo gli inquirenti, di un mandorleto che ora non c'è più. Per il pm - continua - solo chi abita nella zona può conoscere quel luogo; eppure la sera è piena di coppiette che si appartano". E ancora, il passamontagna ritrovato a due isolati dal palazzo di Aldo. "Solo per questo, secondo gli investigatori - continua - può essere riconducibile a mio fratello. Non solo. Chi avvisa la polizia, trova il copricapo ben occultato, ma gli inquirenti verbalizzeranno che era ben visibile. Ma il sospetto maggiore, è per i magistrati, che il giorno dopo il delitto, Aldo, di mattina presto, come del resto era solito fare, va a comprare il giornale. Al pm parve strana quella sete di notizie".
Passeranno oltre dieci anni prima che Aldo si trasformi, da morto, da colpevole a innocente. "Non mi piace la vendetta - incalza Cristiano - vorrei solo che venisse fuori la verità, una verità che sembra sempre appannata". In una lettera inviata al Consiglio D'Europa, il fratello dell'ennesima vittima dell'errore giudiziario, spiega l'importanza di "essere riuscito a informare le sedi competenti a trattare questa materia in ordine ai comportamenti che ancora oggi caratterizzano l'amministrazione della giustizia all'interno di un paese ritenuto civile e moderno quale lo Stato Italiano. E' del tutto evidente - scrive - che il caso di mio fratello non è certo il primo nè, purtroppo,l'ultimo. Nonostante tutto non perdo la speranza di restituire alla sua memoria quella giustizia che ad oggi non c'è stata, come potrebbe accadere qualora la recente riapertura del caso ad opera della magistratura cagliaritana avesse un seguito e, sopratutto, venisse gestita in maniera tale da consentire finalmente un chiarimento dei fatti". Pronta la risposta del Consiglio d'Europa, nella persona di Fabrice Kellens, che scrive a Cristiano Scardella come “anche se il singolo caso da lei presentato è piuttosto grave; ci vediamo costretti – spiega - nel frattempo a chiamare in causa, il comitato delle prevenzioni per la tortura, certi delle informazioni in merito da lei fornite, in particolare la gestione della procedura penale Italiana, che sono di grande interesse”
La battaglia di Cristiano però, qualche risultato l'ha già avuto: dopo la morte del giovane cagliaritano, racconta il fratello, sono stati presentati dei disegni e proposte di legge "per una maggiore garanzia per quanto riguarda l'arresto e soprattutto per l'isolamento che è stata la principale causa della morte di Aldo. Queste iniziative parlamentari sono state recepite dal nuovo codice di procedura penale”. E di recente la Cassazione, aggiunge, ha sancito, dopo l'assoluzione nei confronti di un giornalista che aveva criticato la procedura adottata dal magistrato che aveva arrestato Scardella, che i mass media possono criticare l'operato della magistratura. “Mi rivolgo a tutta la società – conclude - vi chiedo di riflettere su questa affermazione: 'il tempo prescrive tutto, ma la memoria di un uomo vittima di una grave ingiustizia è sempre attuale, e come tale senza tempo'”.

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