mercoledì 30 marzo 2011


Carceri, è tortura di Stato

di Tommaso Cerno
Immaginate di passare ogni giorno in una cella di due metri a quaranta gradi. In piedi o sdraiati su una gommapiuma impregnata dal sudore altrui. Questa è tortura vera, non metaforica. La denuncia di Adriano Sofri
(21 luglio 2010)
Carceri sovraffollate. Celle anguste. Caldo. Niente acqua. Niente aria. Un'estate torrida che spinge a violenze e autolesionismo. Fino al suicidio in cella di chi è così disperato da non voler più vivere. L'allarme che "L'espresso" aveva lanciato qualche mese fa, denunciando il limite di capienza ormai sforato degli istituti penitenziari italiani, diventa cronaca quotidiana di morte nelle galere. E la ragione è un sistema detentivo ai limiti dell'umano, che Adriano Sofri equipara a «una tortura di Stato».

Cosa significa davvero trascorrere in carcere un'estate come questa?
«Per capirlo basta pensare a cosa significhi questo caldo torrido per una persona libera. Chiunque soffre a queste temperature la mancanza d'aria fresca, ha difficoltà a muoversi, a spostarsi e a dormire. Se trasferiamo queste sofferenze in una cella dove lo spazio è di due metri quadrati è facile immaginare cosa succede dentro le prigioni. E' come passare l'estate su un autobus nell'ora di punta. Puoi al massimo sederti, ma non sempre è possibile, perché non c'è lo spazio. Puoi stare in piedi per ore, oppure sdraiato su una squallida branda, a giacere su materassi vecchi, impropriamente chiamati di gommapiuma e imbevuti del sudore di generazioni di detenuti che ci marciscono sopra. Ogni ora, ogni giorno».

E la notte?
«Le celle vengono chiuse il più delle volte alle 18, oppure alle 20, e restano chiuse da quell'ora fino al mattino successivo. Le finestre hanno normalmente tre file di ferro: una grata, una fila di sbarre e una seconda di sbarre meno fitte. A certe ore il sole batte dritto su quell'ammasso di ferro che fa da coperchio e trasforma la cella in una triplice graticola che agisce come uno strumento di tortura sui detenuti stipati all'interno. E' lo strumento che rese celebre San Lorenzo. Sono dei forni veri e propri e all'interno ci sono persone che non possono fare nulla, se non stare immobili, giacere ed attendere che prima o poi l'agonia finisca». 

E' per questo che violenze e suicidi aumentano?
«Sì. Le violenze e anche l'autolesionismo grave. Ci sono detenuti che si riducono a brandelli perché sperano di essere portati in infermeria, di poter prendere degli antidolorifici o dei farmaci, o anche solo sperano di poter fumare una sigaretta».

Nei primi sei mesi di quest'anno 37 detenuti si sono tolti la vita in cella.

«Secondo me la domanda che dovremo farci, in queste condizioni, non è perché ci si suicidi così tanto, ma piuttosto perché ci si suicidi ancora così poco, visto che le carceri sono strutture che non portano affatto alla rieducazione, ma piuttosto istigano a farla finita, all'incubo ottocentesco di essere sepolti vivi. Spesso manca anche l'acqua per lavarsi la faccia e quella dei rubinetti non è potabile. Dovrebbero essere distribuite bottiglie d'acqua a basso costo, che il carcere spesso invece non distribuisce».

Perché lo Stato non interviene?

«La realtà è che nelle carceri italiane c'è la tortura. Non in senso generico o metaforico, proprio in senso tecnico. Queste condizioni, anche senza botte o provocazioni volontarie, si configura come una tortura di Stato. Per cui, se esiste un torturato esiste anche un torturatore. Non parlo degli agenti penitenziari che sono a loro volta, in senso lato, dei semi-detenuti, ma delle autorità che hanno a che fare con questo sistema. Gente che per cattiveria, imbecillità o peggio fa leggi che spediscono in carcere persone che non ci dovrebbero andare. E che non prende alcuna misura per evitare la situazione tragica a cui le condanna».

I magistrati potrebbero fare qualcosa?

«I magistrati, quando non hanno una vocazione almeno iniziale a occuparsi delle carceri credendoci davvero (e sono la minoranza, molti più fra le donne), sono persone che cercano di smaltire con il minimo danno la gestione di una discarica, a loro affidata, con istruzioni che dicono di fare il meno possibile e di girarsi dall'altra parte. Spesso quello che sentenziano è un voto a fine scrutinio: 10, oppure 18. Ma nessuno pensa che quel 10 significa 10 anni moltiplicati per 365 giorni e ancora per 24 ore, per due metri quadrati e per tre file di sbarre. Su questo i magistrati sembrano non porsi nemmeno il problema».
      Da "L'Espresso" 

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