sabato 26 marzo 2011

Dal carcere di Regina Coeli


di Giorgia Troiani giorgia@marsala.it
Sono entrata nel carcere di Regina Coeli, col mio solito carico emotivo e la mia ansia che non mi abbandonano mai e che spesso mi fanno provare quell’orrenda sensazione di mancanza d’aria.

Sono arrivata in via della Lungara e ho varcato il famoso gradino(famoso perché è il protagonista di un antico detto romano <<A via de la Lungara ce sta 'n gradino, chi nun salisce quelo nun è romano,nun è romano e né trasteverino>>) che separa il carcere dalla libertà.
Dopo aver sbrigato le pratiche burocratiche (la borsa nell’armadietto, i documenti agli agenti all’entrata e la mia firma su un paio di fogli) mi hanno accolta all’ingresso la vice direttrice, la vice-comandante della polizia penitenziaria e un poliziotto che mi è rimasto a meno di un metro per tutto il tempo.

Dal portone di ingresso accedo, dopo qualche porta, al cortile interno, di forma rotonda, dove c’è disegnata la rosa dei venti. Il poliziotto dietro di me chiude con una certa frenesia il portone e da rumorose mandate di chiavi.
Mi sento osservata, alzo gli occhi al cielo e vedo 3 piani, dai quali si estendono le sezioni.
In ogni sezione le celle sono disposte una di fronte all’altra e i piani vengono divisi da reti metalliche, affinché nessuno si getti di sotto.
Avevo visto quest’immagine alla televisione, ma trovarmi lì sotto mi ha fatto venire una sensazione di angoscia.
Alzo gli occhi al cielo e mi impressiona vedere i loro visi da quelle reti che li distorcono e mi fanno sentire un animale in gabbia, isolata, una “turista”in visita in un museo.
Non so cosa hanno pensato i detenuti quando mi hanno vista, so solo che mi sono sentita i loro occhi addossi per tutto il tempo, e che tutti quegli sguardi non mi facevano capire se ero io ad osservare loro o loro ad osservare me.
Nella rotonda la vice direttrice comincia a darmi qualche dato che non coincide con i miei.
Non ho con me il mio prezioso blocchetto, ma so di preciso che il numero dei detenuti è all’incirca 1300, e che la struttura può ospitarne circa 750-900.
Lei mi dice che il mio dato è sbagliato e che il numero dei detenuti è 1006.
Replico che il suo dato non coincide col mio.
Lei insiste dicendomi che il mio dato è sbagliato e continua il suo discorso sulla storia del carcere (nasce come convento, poi diviene…ecc.ecc.)la interrompo più volte chiedendole i dati dei suicidi, i motivi dei suicidi, l’atteggiamento della polizia penitenziaria, cosa leggono e dove, chiedo di visitare la biblioteca, ma ironia, non trovano la chiave…………………….???!!!!
Mi avvicino alle loro celle, mi salutano gentilmente, sento qualche mormorio perplesso, alcuni mi guardano e rientrano.
Chiedo di visitare la zona ospedaliera, anche li attacca con mille dati, che mi interessano poco perché non ho modo di fare confronti.
Mi scosto e mi affaccio in una sala medica dove c’è un ragazzo magrissimo, steso sul lettino a cui un’infermiera sta facendo delle medicazioni.


Si accorge della mia presenza e mi guarda quasi irritato.
Mi allontano per rispettare in qualche modo la sua privacy.
La vice-direttrice mi spiega che hanno anche una sala operatoria, chiedo di vederla, ma mi dice che lei non è autorizzata e che devo chiamare il responsabile.
La vice-direttrice non è autorizzata a farmi vedere la sala operatoria?
Rimango perplessa….allora ricomincio con le mie domande.
Tra le tante: ogni quanto vengono cambiate le lenzuola, se leggono i quotidiani, come funzionano i pasti, se hanno una palestra, cosa fanno durante le “ore d’aria” ecc.ecc.
Le risposte sono esaustive, precise e piene di dati.
Arriva anche lo psichiatra, anche lui sciorina una serie di dati…in mano ha mille carte, ricette mediche e l’aria un po stanca.

Chiedo di visitare le celle, entro, saluto e mi presento.
Cerco di non essere banale, e cerco di fuggire da quelle solite frasi piene di retorica e banalità, stringo mani e sorrido.
Spiego che sono lì grazie ad un’iniziativa dei radicali e che lo scopo è quello di vedere tutte le cose che non vanno.
L’imbarazzo è evidente, cosi come pure la mia agitazione.
I detenuti che stanno in quella cella sono in tre, occhi curiosi, si presentano con una certa educazione, uno di loro si trova nello spazio della cella dove c’è una specie di cucina e evitando il tono formale gli chiedo cosa cucina e come funzionano i pasti.
Gli chiedo poi di farmi vedere il bagno.
Non ci sono porte che dividono gli spazi e sopra la mia testa c’è un filo con stesa la loro biancheria intima. Per terra i giornali.
Su un tavolino vedo dei quotidiani e gli dico che mi fa molto piacere che leggano i giornali…perché come diceva Hegel:<<la lettura dei quotidiani è la preghiera dell’uomo moderno>>…si mettono a ridere e io insieme a loro, perché mi accorgo che certe volte sono “comica” nel mio essere seria.
Li saluto, strette di mano e sorrisi più o meno imbarazzati.
Vado avanti, saluto, entro, osservo.

L’iniziativa dei radicali, di Rita Bernardini in particolare, è nobile, come al solito hanno dimostrato di essere attenti e sensibili verso i più deboli, ma mi piacerebbe tornare lì, un giorno qualsiasi, a sorpresa, senza prendere appuntamento, citofonare ed entrare, senza avere scorta.
Questo perchè alcune cose non mi tornano: il numero reale dei detenuti, se la polizia penitenziaria eserciti violenza, anche solo psicologica, sui detenuti, dove stanno le celle d’isolamento, la sala operatoria, come funziona l’accesso alla biblioteca e vedere il quarto braccio.
E poi la domanda più importante ai detenuti: come si comportano i poliziotti nei loro confronti.
Spero di riuscirci.
Prima di riuscire ho rialzato gli occhi al cielo e mi sono incamminata verso il portone che mi ha riportato fuori.
Mi sono voltata e …in bocca al lupo gente!

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