Il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio, ma l'indifferenza: questa è l'essenza della disumanità.
George Bernard Shaw
Colpevoli fino a prova contraria
Secondo il diritto romano, al quale la legge italiana si ispira, ogni persona è innocente fino a prova contraria. Sembra un’ovvietà, ma non lo è. Questo principio significa che nessuno deve dimostrare di essere innocente solo perchè è sospettato di aver commesso un qualsiasi reato, ma è lo stato (nella persona del pubblico ministero) a doverne dimostrare la colpevolezza in tribunale – anzi, se necessario dovrà portare avanti il processo in appello e in cassazione. Finchè la colpevolezza non sarà dimostrata, l’indagato/imputato non deve essere punito.
A questa regola è sempre esistita un’eccezione, il carcere preventivo. Ma era appunto un’eccezione e i suoi limiti erano – sono – chiaramente definiti dalla legge: una persona la cui colpevolezza è ancora da dimostrare può essere incarcerata solo se esistono gravi indizi a suo carico e, in aggiunta, il sospettato ha contatti e mezzi che gli consentirebbero una fuga oppure potrebbe inquinare le indagini.
Oggi il carcere preventivo ha cambiato nome: si chiama custodia cautelare. Si tratta di un’operazione puramente retorica atta a mascherare un concetto. Si tenta di negare il fatto che le persone vengono incarcerate preventivamente, cioè prima di aver verificato che esista un motivo valido per farlo; si chiama questa condanna arbitraria “custodia” e si afferma di applicarla per cautelarsi. La retorica del potere non è mai stata così divertente come negli ultimi decenni.
Nonostante tutte le statistiche parlino di un calo dei reati negli ultimi anni, basta uno sguardo disattento a un telegiornale per rendersi conto che l’attenzione verso la cronaca nera non è calata per niente. Ma, con una faccia tosta fuori dal comune, tra un omicidio e l’altro i giornalisti si ricordano ogni tanto di avvertirci che le prigioni stanno esplodendo – come se loro non avessero responsabilità in questa atrocità! Sempre dando un’occhiata alle statistiche si vedrà come il numero dei carcerati è costituito buona parte da persone che, secondo i principi democratici italiani, non dovrebbero essere in gabbia – perchè in carcere preventivo o perchè appellanti. Quello che è accaduto è semplicemente un rovesciamento della situazione: prima l’incarcerazione era un’eccezione, ora lo è la presunzione di innocenza.
Giustizialismo puro? Severità di un sistema che deve liberarsi dal crimine? Macchè. I colletti bianchi, i politici e i più grandi spacciatori di droga – tanto per fare qualche esempio – se ne stanno tuttora ben lontani dalle galere, altro che carcere preventivo! Sempre secondo le statistiche, circa metà della popolazione carceraria è costituita da immigrati. Chi ha visto i luoghi di reclusione si rende conto facilmente di come non sia un’etnia, una religione, o qualche altra idiozia del genere ad accomunare i prigionieri, quanto piuttosto una categoria sociale. In una parola: i poveri. Quelli che non si adattano, perchè non ne hanno la possibilità o perchè non ne hanno intenzione. Quelli che rifiutano di farsi sfruttare da un sistema di lavoro inumano e quelli che vorrebbero farlo ma non ci riescono. Quei miserabili e quegli spossessati che, ormai, sono sempre di più. Con l’aumento della disoccupazione, della precarietà, con il rincaro degli affitti e dei beni primari, fasce sempre più grandi della popolazione rischiano il carcere, che lo vogliano o no, che se ne rendano conto o no. Per molti anche sopravvivere è un reato, ormai.
Diventa così evidente come non siano le loro azioni ad essere giudicate e punite, ma la loro condizione sociale. Le persone vengono incarcerate per ciò che sono, più che per i loro atti. Colpevoli di non essere tra gli eletti… fino a prova contraria.
A questa regola è sempre esistita un’eccezione, il carcere preventivo. Ma era appunto un’eccezione e i suoi limiti erano – sono – chiaramente definiti dalla legge: una persona la cui colpevolezza è ancora da dimostrare può essere incarcerata solo se esistono gravi indizi a suo carico e, in aggiunta, il sospettato ha contatti e mezzi che gli consentirebbero una fuga oppure potrebbe inquinare le indagini.
Oggi il carcere preventivo ha cambiato nome: si chiama custodia cautelare. Si tratta di un’operazione puramente retorica atta a mascherare un concetto. Si tenta di negare il fatto che le persone vengono incarcerate preventivamente, cioè prima di aver verificato che esista un motivo valido per farlo; si chiama questa condanna arbitraria “custodia” e si afferma di applicarla per cautelarsi. La retorica del potere non è mai stata così divertente come negli ultimi decenni.
Nonostante tutte le statistiche parlino di un calo dei reati negli ultimi anni, basta uno sguardo disattento a un telegiornale per rendersi conto che l’attenzione verso la cronaca nera non è calata per niente. Ma, con una faccia tosta fuori dal comune, tra un omicidio e l’altro i giornalisti si ricordano ogni tanto di avvertirci che le prigioni stanno esplodendo – come se loro non avessero responsabilità in questa atrocità! Sempre dando un’occhiata alle statistiche si vedrà come il numero dei carcerati è costituito buona parte da persone che, secondo i principi democratici italiani, non dovrebbero essere in gabbia – perchè in carcere preventivo o perchè appellanti. Quello che è accaduto è semplicemente un rovesciamento della situazione: prima l’incarcerazione era un’eccezione, ora lo è la presunzione di innocenza.
Giustizialismo puro? Severità di un sistema che deve liberarsi dal crimine? Macchè. I colletti bianchi, i politici e i più grandi spacciatori di droga – tanto per fare qualche esempio – se ne stanno tuttora ben lontani dalle galere, altro che carcere preventivo! Sempre secondo le statistiche, circa metà della popolazione carceraria è costituita da immigrati. Chi ha visto i luoghi di reclusione si rende conto facilmente di come non sia un’etnia, una religione, o qualche altra idiozia del genere ad accomunare i prigionieri, quanto piuttosto una categoria sociale. In una parola: i poveri. Quelli che non si adattano, perchè non ne hanno la possibilità o perchè non ne hanno intenzione. Quelli che rifiutano di farsi sfruttare da un sistema di lavoro inumano e quelli che vorrebbero farlo ma non ci riescono. Quei miserabili e quegli spossessati che, ormai, sono sempre di più. Con l’aumento della disoccupazione, della precarietà, con il rincaro degli affitti e dei beni primari, fasce sempre più grandi della popolazione rischiano il carcere, che lo vogliano o no, che se ne rendano conto o no. Per molti anche sopravvivere è un reato, ormai.
Diventa così evidente come non siano le loro azioni ad essere giudicate e punite, ma la loro condizione sociale. Le persone vengono incarcerate per ciò che sono, più che per i loro atti. Colpevoli di non essere tra gli eletti… fino a prova contraria.
Questa situazione finirà solo quando sarà il povero a dichiarare guerra al ricco; quando gli spossessati, stanchi della loro condizione, decideranno di farla finita col carcere e col mondo che lo ha generato.
Da "IL grido" -NOBLOGS
“Fino ad un gesto molto più umano”
Ma quale rieducazione dell’individuo? Di carcere si muore! Negli ultimi dieci anni sono morti oltre 1500 detenuti, con una media di 150 all’anno. Di queste morti, oltre un terzo sono ufficialmente classificate come suicidi: si tratta di persone che non sono state soltanto uccise, ma addirittura indotte da una situazione inumana a rinunciare alla propria vita. Un altro terzo sono classificate come morti misteriose. Quest’anno – al momento della stesura di questo volantino siamo solo al maggio del 2010 – le morti sono già 70, quindi si può facilmente prevedere come il numero sia destinato ad aumentare.
Questi numeri sembrano quasi piccoli, in un mondo dove “cento” non è che una piccola parte dell’affitto di casa o dell’assicurazione dell’auto, in un mondo dove le notizie sul giornale sono diventate un elenco di cifre percentuali sulle quali magari nemmeno il giornalista ha riflettuto, in un mondo in cui ogni partito non fa altro che inventare statistiche per fingersi potente e benvoluto. I numeri rappresentano realtà lontane, li snoccioliamo senza nemmeno pensare a ciò che vi sta dietro. Ed è esattamente questo il problema: “150 morti” sono solo un numero e una parola neri su un foglio bianco.
Lo stato moderno ha ogni giorno la riprova che la sua strategia è vincente: trattando le persone da imbecilli le ha trasformate in imbecilli. Sbaglio a dirti questo? Se è così dovresti tornare da me (o da chi ti ha dato questo volantino) e darmi un pugno. Se non lo fai forse ho colpito nel segno. Chiamo imbecille un essere umano che non è capace di riconoscere se stesso in un suo simile che soffre o che muore. Chiamo imbecille chi passa vicino a un carcere senza chiedersi cosa stia succedendo oltre quel muro. Chiamo imbecille chi è capace di ignorare 150 morti all’anno solo perché non avvengono davanti ai suoi occhi, o perché non conosce personalmente gli individui che perdono la vita. A pensarci bene sono troppo moderato, imbecille è quasi un complimento.
Ma allora imbecilli – o qualcosa di peggio – lo siamo tutti. Diversamente, un luogo inumano e spaventoso come il carcere non potrebbe più esistere. Certo, i luoghi di reclusione sono difesi da professionisti armati; ma quei poliziotti sono solo un granello di sabbia di fronte a tutto il resto della popolazione. L’esistenza delle galere, in ultima analisi, è dovuta all’indifferenza generale. E’ dovuta al fatto che non siamo in grado di provare empatia – o di provarne abbastanza – nei confronti di chi vive una vita indegna di essere vissuta. Perché non stiamo parlando di mostri: anche il più efferato degli omicidi probabilmente dovrebbe dirci qualcosa su noi stessi, ma la maggioranza dei reclusi non ha commesso atrocità, sono solo persone che vivono di espedienti illegali, per scelta o per necessità; persone che possiamo giudicare bene o male esattamente come possiamo giudicare bene o male chi vive legalmente; persone con le quali potremmo avere in comune molto più di quanto crediamo. Persone che vengono tenute ben lontane da noi tramite delle sbarre; lontane dai nostri occhi grazie a un muro; lontane dal nostro pensiero grazie alla propaganda di un’”informazione” che ci tartassa con una cronaca nera esasperata; lontane dalla nostra capacità di indignarci e arrabbiarci grazie a un’etichetta e ai pregiudizi che essa si porta dietro: l’etichetta di criminale.
In questo modo lo stato può permettersi di rinchiudere in un luogo di sofferenza decine di migliaia di persone scomode, può permettersi di ammazzarle o di lasciarle morire nella loro disperazione.
Caro lettore o cara lettrice, perdonami i toni populisti che richiamano un facile sentimentalismo… ma la realtà è proprio questa. Perdonami la provocazione di prima – del resto, se hai letto questo testo senza pregiudizi forse sarai d’accordo anche tu che questa situazione deve finire, che chiudere gli occhi in eterno non è possibile, che agire non è soltanto necessario ma anche urgente.
Nei modi che la tua fantasia e la tua sensibilità di suggeriscono.
Questi numeri sembrano quasi piccoli, in un mondo dove “cento” non è che una piccola parte dell’affitto di casa o dell’assicurazione dell’auto, in un mondo dove le notizie sul giornale sono diventate un elenco di cifre percentuali sulle quali magari nemmeno il giornalista ha riflettuto, in un mondo in cui ogni partito non fa altro che inventare statistiche per fingersi potente e benvoluto. I numeri rappresentano realtà lontane, li snoccioliamo senza nemmeno pensare a ciò che vi sta dietro. Ed è esattamente questo il problema: “150 morti” sono solo un numero e una parola neri su un foglio bianco.
Lo stato moderno ha ogni giorno la riprova che la sua strategia è vincente: trattando le persone da imbecilli le ha trasformate in imbecilli. Sbaglio a dirti questo? Se è così dovresti tornare da me (o da chi ti ha dato questo volantino) e darmi un pugno. Se non lo fai forse ho colpito nel segno. Chiamo imbecille un essere umano che non è capace di riconoscere se stesso in un suo simile che soffre o che muore. Chiamo imbecille chi passa vicino a un carcere senza chiedersi cosa stia succedendo oltre quel muro. Chiamo imbecille chi è capace di ignorare 150 morti all’anno solo perché non avvengono davanti ai suoi occhi, o perché non conosce personalmente gli individui che perdono la vita. A pensarci bene sono troppo moderato, imbecille è quasi un complimento.
Ma allora imbecilli – o qualcosa di peggio – lo siamo tutti. Diversamente, un luogo inumano e spaventoso come il carcere non potrebbe più esistere. Certo, i luoghi di reclusione sono difesi da professionisti armati; ma quei poliziotti sono solo un granello di sabbia di fronte a tutto il resto della popolazione. L’esistenza delle galere, in ultima analisi, è dovuta all’indifferenza generale. E’ dovuta al fatto che non siamo in grado di provare empatia – o di provarne abbastanza – nei confronti di chi vive una vita indegna di essere vissuta. Perché non stiamo parlando di mostri: anche il più efferato degli omicidi probabilmente dovrebbe dirci qualcosa su noi stessi, ma la maggioranza dei reclusi non ha commesso atrocità, sono solo persone che vivono di espedienti illegali, per scelta o per necessità; persone che possiamo giudicare bene o male esattamente come possiamo giudicare bene o male chi vive legalmente; persone con le quali potremmo avere in comune molto più di quanto crediamo. Persone che vengono tenute ben lontane da noi tramite delle sbarre; lontane dai nostri occhi grazie a un muro; lontane dal nostro pensiero grazie alla propaganda di un’”informazione” che ci tartassa con una cronaca nera esasperata; lontane dalla nostra capacità di indignarci e arrabbiarci grazie a un’etichetta e ai pregiudizi che essa si porta dietro: l’etichetta di criminale.
In questo modo lo stato può permettersi di rinchiudere in un luogo di sofferenza decine di migliaia di persone scomode, può permettersi di ammazzarle o di lasciarle morire nella loro disperazione.
Caro lettore o cara lettrice, perdonami i toni populisti che richiamano un facile sentimentalismo… ma la realtà è proprio questa. Perdonami la provocazione di prima – del resto, se hai letto questo testo senza pregiudizi forse sarai d’accordo anche tu che questa situazione deve finire, che chiudere gli occhi in eterno non è possibile, che agire non è soltanto necessario ma anche urgente.
Nei modi che la tua fantasia e la tua sensibilità di suggeriscono.
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