domenica 27 marzo 2011

I detenuti in Italia, chi sono?


Così i reati più piccoli fanno esplodere il carcere

A ognuno di noi sembra molto ma molto difficile, se ci si comporta più o meno bene, entrare in carcere, in questa Italia. Anzi sembra che nei duecento “istituti di pena” non ci entri nemmeno chi “se lo merita”.
Ma non è così. Dall’Unità d’Italia a oggi, nei 170 anni di storia italiana, non si sono mai registrati così tanti detenuti nelle nostre carceri. L’ultimo conteggio ufficiale del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, parla di 68.527 detenuti (ma sarebbero già 69.500), tra i quali 3mila donne. Di queste, sessantuno hanno i figli in cella. Rispetto ai 44.568 posti effettivamente disponibili, i detenuti sono circa 25mila in più.
Un terzo non è nato da noi: sono stranieri, con in testa marocchini e algerini, due terzi dei detenuti sono italiani. Da dove nascono le cifre del record? Per quale “irragionevole ragione” la popolazione carceraria è così alta, appena quattro anni dopo l’indulto voluto dall’allora ministro Clemente Mastella? E se i reati, come assicura il ministero degli Interni Roberto Maroni, sono “complessivamente in calo”, com’è possibile un incremento così ansiogeno?
LE PORTE GIREVOLI
In televisione “passano” gli arresti dei latitanti, quest’ondata infinita di catture improvvise, che sommerge boss e gregari anzianotti, reduci dei vecchi eserciti mafiosi in rotta. Ma nelle celle vanno ben altri. Per esempio, ci va un calciatore, delle giovanili della Juventus. E perché? Nella Chivasso dell’ultimo ferragosto incrocia una pattuglia dei vigili e vola qualche parola di troppo. E anche se l’arresto per resistenza a pubblico ufficiale è facoltativo, D. B., classe 1988, finisce dentro. Due giorni alle Vallette, sulle brandine sovraffollate, per ricomparire in tribunale il 16 agosto. Con il suo taglio di capelli scolpito, il fisico perfetto e la maglietta alla moda spicca tra gli stranieri e i “borderline” delle direttissime: viene scarcerato, ma due giorni se li è fatti.
Cambiamo regione e professione: Felice e Salvatore sono due operai di Bagheria, hanno 28 anni, non hanno mai avuto un guaio con la giustizia, finché un giorno buttano in un cassonetto della segatura di legno. Lo avevano sempre fatto, alla fine del turno in falegnameria. Ma era appena cambiata la norma, rimasero tre giorni dentro. Qualche anno fa, e ancora ne ridono, entrò a San Vittore un diciottenne che non s’era fermato all’alt nella zona della stazione Centrale ed era scappato con lo skate-board. E a Reggio Emilia, solo quindici giorni fa, è stato messo in cella uno che aveva rubato una lattina di birra.
É il reato che manco si sa di commettere a rendere il carcere una bolgia. Sono soprattutto i “pesci piccoli” - questa è la gran verità, omessa nei discorsi ufficiali sulla sicurezza e la giustizia - che rendono le carceri simili a una tonnara nei giorni della mattanza. E chi si occupa di detenuti accusa del disastro soprattutto le “porte girevoli”: è stato ribattezzato in questo modo il vortice d’ingressi (che si potrebbero evitare) e di repentine uscite.
Come il calciatore, i falegnami e il ladro della lattina. I “nuovi rei”, ossia le persone che entrano in carcere per la prima volta, sono 32mila. Uomini e donne, con famiglie, con affetti, che vengono presi, perquisiti, spogliati, che ricevono dalla polizia penitenziaria gli “effetti letterecci” per dormire sulle brande.
Vengono infilati in celle già affollatissime e ci restano, con le nuove, sconosciute e obbligatorie compagnie, non si sa quanto gradevoli, per quarantott’ore. E poi, ancora sporchi dell’inchiostro delle impronte digitali all’ufficio matricola, e con le stringhe da allacciare, ricevono tanti saluti: possono tornare a casa. In Lombardia, il provveditore regionale Luigi Pagano ha calcolato che, nelle due principali case circondariali, Milano e Brescia, la percentuale dei detenuti che “esce nel giro di una settimana varia dal cinquanta al sessanta per cento. A volte arriva uno alle 12 e alle 14 esce”.
Mentre il nostro governo si dedica anima e corpo al cosiddetto lodo Alfano e al “processo breve”, a chi e a che cosa serve questo “carcere breve”? Non c’è una risposta che sia una. Ma è stato calcolato che quattro persone comuni su dieci, la cui fedina penale era pulita, e che se la potevano cavare con una denuncia a piede libero, incontrano il sistema penale italiano: meglio, ci sbattono contro.
Una parte molto cospicua di questo “entra ed esci” riguarda quelli che vengono anche definiti “reati apparenti”, e cioè reati in cui manca la vittima. È il reato principe degli immigrati clandestini, come Frank: era un habitué dei portici di Palermo, ha collezionato un arresto ogni due settimane per mesi (”non ottemperava al decreto d’espulsione”) fino a quando è riuscito a far perdere le proprie tracce.
Quello cui si sta assistendo - parlano i fatti - è un “repulisti” di poveracci, di stranieri e di tossici, messi nella “discarica” del carcere (sono tutte parole pronunciate nei convegni). Se questo può forse corrispondere a una precisa logica “d’ordine” (ordine almeno apparente, da immagine televisiva e non da strada), il problema non cambia. Il reato piccolo piccolo è in agguato per chiunque: Antonio è un odontotecnico, è stato accusato di un furto di corrente elettrica, si era dichiarato innocente, ma non ha avuto possibilità di difesa, giacché il tecnico dell’Enel aveva portato via il contatore. Quattro giorni di prigione e poi via di corsa a patteggiare, “pur di tornarmene fuori”, dice.
Qual è la “colpa principale” per quasi la stragrande maggioranza dei detenuti italiani? Sono i “reati contro il patrimonio”: furti e borseggi. Poi c’è il piccolo spaccio. Molto impegnati nel “turn over” della giustizia sono i tossicomani, arrestati per possesso di droga sul cui uso, personale o per vendita, deve pronunziarsi il magistrato. Ben il 30 per cento dei detenuti è consumatore di droga (e molti sono affetti da epatite C) e dovreste stare in comunità (ma non c’è posto). Per omissione di soccorso, ingiuria e diffamazione finisce dentro il 15 per cento. In fondo alla classifica dei detenuti, ecco i responsabili di reati contro la pubblica amministrazione (3,4) e contro l’amministrazione della giustizia (2,9%).
LE MISURE DELLA TORTURA
E i “cattivi” veri? A conti fatti, solo tre detenuti su dieci - attenzione - si sono macchiati o sono sospettati di crimini violenti. Più paradossale il tema dei “mafiosi in galera”: intere fette di territorio sono in mano ai clan, ma in carcere non arrivano a seimila detenuti. E, tra questi, è il 10 per cento che sconta il famoso o famigerato 41 bis, ossia il carcere durissimo. Quanti? Presto detto: 267 camorristi, 210 esponenti di Cosa nostra, 114 affiliati alla ‘ndrangheta. Una goccia nel mare.
Vale la pena di ricordare che era il 2006 e con l’indulto avvenne “l’esodo dei 23mila”. Ma adesso “tutte le Regioni italiane hanno abbondantemente superato la capienza regolamentare”, come denuncia il sindacato di Polizia penitenziaria Sappe. Al Nord non si sta meglio che al Sud. Il top? È in Emilia Romagna: capienza totale 2393, numero dei reclusi oltre 4.400. “In percentuale è il 198 per cento, un dato cronico e destinato a superare ogni limite in Italia”, dice Franco Maisto, presidente del tribunale di Sorveglianza di Bologna. “Siamo in un frenetico e imperdonabile immobilismo, “si fa si fa”, dicono, e non si fa mai niente in nessuna direzione. Né aumentano i posti letto, né esce la gente”.
“Detenuto in attesa di giudizio” è il titolo di un vecchio film, con Alberto Sordi protagonista. Raccontava di un innocente che finiva in carcere. Negli anni dell’inchiesta milanese “Mani pulite”, quando a entrare in cella erano politici, finanzieri, imprenditori, molti giuravano: “Mai più, bisogna cambiare le carceri”. Comunque la si pensi sul “pugno duro”, sul “giustizialismo” o sul “garantismo”, il dato è angoscioso: il 43 per cento degli attuali detenuti è in attesa di giudizio.
Dietro le sbarre, dove qualche gangster resiste ancora, e non mancano i balordi, tra tossici e clandestini, gravitano oggi 30mila detenuti senza una condanna definitiva. E - attenzione - la metà di questi “non definitivi”, e dunque almeno quindicimila, sarà - la stima è dell’associazione Ristretti Orizzonti - assolta. In Europa, siamo un caso unico.
È grazie a questo paranoico stato delle cose che in cento posti-branda sono ammassate - per statistica - 152 persone. Soltanto in Bulgaria il tasso di affollamento delle carceri è maggiore (155), mentre la media europea è di 107 detenuti ogni 100 posti. I letti a castello arrivano a tre, quattro piani, la testa di chi dorme è a 50 centimetri dal soffitto. Spesso lo spazio vitale del detenuto è molto al di sotto dello standard dei 3 metri quadrati che sono “la misura della tortura”.
Il coefficiente, in molte carceri dell’Italia del G8, è del 2,66 periodico: un coefficiente accettabile solo tra innamorati. Caltagirone, in provincia di Catania, è al primo posto per l’indice di sovraffollamento: ospita 302 persone invece delle 75 previste. Lo segue un altro carcere siciliano, Mistretta (Messina), con l’indice al 175 per cento. E la Uil penitenziari fa notare anche il caso di Busto Arsizio (Varese), non enorme, ma con gli arresti dell’aeroporto internazionale della Malpensa, “è pieno come un uovo”. Si sta un po’ più larghi a Poggioreale: il carcere di Napoli ha una capienza di 1.658 persone, è arrivato a 2.801, numero che lo rende in termini assoluti quello più popolato d’Europa. Sommando tutti i numeri dei detenuti europei, fa effetto scoprire che uno su quattro si trova in Italia.
L’EXPLOIT DEI COSTI
Ma quanto costa questa macchina infernale? E che rimedi propongono dal governo?
Ogni detenuto costa allo Stato come se alloggiasse in un hotel quattro stelle: 113,04 euro. È questa la cifra media che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indica come costo giornaliero di un detenuto. In totale fanno 2,7 miliardi di euro. La cifra, non certo bassa, viene considerata ben al di sotto del necessario dagli
operatori.
L’associazione Antigone, che oggi diffonderà un suo dossier sulle carceri, ha calcolato che se si arrivasse alla cifra dei 44 mila detenuti previsti nelle tabelle, si risparmierebbero 1,5 miliardi di euro. Non mancano neppure sprechi “classici”: come le nuove manette acquistate in confezione da cinque per le quali però, stando a un sindacato, ci sono solo due coppie di chiavi.
Gli agenti sono 39mila contro i 45 mila dell’organico. E seimila assenze pesano: nella sezione femminile del carcere pesarese Villa Fastiggi hanno dovuto lavorare anche agenti maschi, con sconcerto generale. Anche perché, nel gennaio scorso, il ministro Angiolino Alfano, in un incontro con i sindacati della polizia penitenziaria, aveva rassicurato tutti. Come? Annunciando diciotto nuove carceri, di cui dieci “flessibili”. E garantendo - parole sue - le “tanto agognate 2mila unità”.
Risultato reale? Zero. Ma questo di Silvio Berlusconi non era il “governo del fare”? Un altro anno galeotto sta finendo, e tra due mesi scade anche il decreto ministeriale che aveva nominato commissario straordinario Francesco Ionta.
I “Baschi azzurri” della polizia penitenziaria fanno le scorte. Ma - chiedono da qualche tempo - ha senso organizzare trasferte “di almeno tre uomini” non per i mafiosi, ma per chi sta per essere rilasciato? “Partiamo in tre con il cellulare - è il racconto concreto - per trasportare in un’altra regione qualcuno che va ai domiciliari, lo salutiamo e lo lasciamo libero anche… di evadere”, protestano. È anche successo che, durante un trasferimento, il furgone cellulare si sia fermato: siccome si taglia su tutto, nel serbatoio non c’era più benzina.
Enrico Bellavia e Piero Colaprico
La Repubblica, 22/10/2010

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