lunedì 27 giugno 2011

In carcere tra i dannati del 41 bis


LIRIO ABBATE

In carcere tra i dannati del 41 bis

27-06-2011
Per la prima volta “l’Espresso” è entrato nelle prigioni sarde. Dove sono rinchiusi boss e terroristi. E arriveranno tutti i reclusi più pericolosi. Totò Riina lo aveva capito subito: è in fondo a corridoi come questo che Cosa nostra rischia la sconfitta. E non per l’aspetto da galera ottocentesca, con i muri scrostati intrisi dell’odore inconfondibile e insopportabile di umidità e clausura. E nemmeno per quel soprannome fin troppo esplicito, “la porcilaia”, ispirato dalle dimensioni delle celle, troppo anguste per apparire destinate a ospitare esseri umani per lunghissimi anni. Solo entrando nella “porcilaia” del penitenziario di Badu ‘e Carros si riesce a comprendere l’abisso psicologico del “carcere duro”: il 41 bis, un provvedimento eccezionale, ai limiti della legalità e della democrazia, ma allo stesso tempo il solo in grado di spezzare i vincoli delle organizzazioni mafiose e di quelle terroristiche.
“L’Espresso” è riuscito per la prima volta a visitare e fotografare i reparti dell’alta sicurezza dei principali istituti di pena sardi - Nuoro e Macomer - dove sono reclusi alcuni dei condannati per i reati più gravi di criminalità organizzata e terrorismo islamico. L’isola è stata in qualche modo la terra natale del “carcere duro”, scattato all’improvviso in una notte del luglio 1992 con il trasferimento a sorpresa dei boss verso Nuoro e verso l’Asinara. La mossa più pesante e tormentata decisa dalle istituzioni per rispondere alla ferocia delle bombe di Palermo.
Prima di allora le manette non avevano mai fatto paura ai mafiosi, che avevano una certezza consolidata da generazioni: la galera era una villeggiatura. Ricordate? Il Grand hotel Ucciardone, con aragoste e champagne per i padrini in cella. Ma quella notte, dopo le stragi di Falcone e Borsellino, si ritrovarono trasportati tutti in un mondo che non conoscevano più, dove tutte le loro certezze si erano sgretolate.
Dagli istituti della Sicilia e delle metropoli furono deportati in Sardegna e sull’isola del Diavolo, l’Asinara, rinchiusi in celle buie, isolati l’uno dall’altro, inibiti a comunicare con l’esterno, resi ciechi da piccole finestre che lasciavano entrare pochissima luce.
Questo era il 41 bis di 19 anni fa. La condanna delle condanne per i mafiosi. Un problema per i clan, visto che proprio da questo regime sono poi derivati pentimenti e collaborazioni (vedi box a pag. 71 ). Poi, nel tempo, le maghe s’erano un po’ allargate, finché adesso un articolo del testo di legge approvato due anni fa riporta i mafiosi nell’incubo: “I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari”.
I mafiosi quindi torneranno - come impone la nuova legge - sull’isola. Ed escludendo la Sicilia per ragioni di sicurezza e incompatibilità ambientale, sarà ancora la Sardegna ad ospitare un alto numero di boss. Il piano potrebbe diventare esecutivo a breve: i reclusi al 41 bis che si trovano sparsi per l’Italia saranno trasferiti lì. La Cayenna dell’Asinara rimarrà chiusa, ma il programma edilizio varato dal direttore dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, ha già dato il via alla creazione di due padiglioni di massima sicurezza a Cagliari e Sassari, i cui lavori saranno completati il prossimo anno.
La Sardegna, con la difficoltà di visite per i familiari e le vie di fuga limitate dal mare, è sempre stata la destinazione dei criminali di rango: mafiosi, camorristi, terroristi neri e rossi del passato e, oggi, ai terroristi islamici. Mentre Cagliari e Sassari si preparano ad accogliere i pezzi da novanta, a Nuoro ci sono già. In un raggio di circa cinquanta chilometri, nel cuore di questa provincia senza treni né aeroporti, ci sono tre istituti di pena (Badu ‘e Carros, Macomer e Mamone), differenti l’uno dall’altro per caratteristiche e tipologia di detenuti. Là dentro ci si trovano tutte le categorie di pericoli pubblici, inclusi i miliziani di Al Qaeda provenienti da Guantanamo.
Il viaggio de “l’Espresso” comincia da Badu ‘e Carros. La puzza di vecchiume e di muffa si infila nelle narici prima ancora che lo sguardo sveli le pareti scrostate del corridoio su cui si aprono le celle dei boss. In questo vecchio istituto ci sono mafiosi e criminali tra i più pericolosi del nostro Paese. Molti stanno scontando qui il loro “fine pena mai”.
A Badu ‘e Carros sono sfilati in passato i peggiori galeotti. Ed è sempre qui che negli ultimi trent’anni si sono verificati episodi fra i più gravi. Adesso la lista degli ospiti elenca 32 appartenenti alla camorra, 27 a Cosa nostra, le alla ‘ndrangheta e 6 alla Sacra corona unita. La sezione che li ospita è la prima, ed è divisa su tre piani. Per raggiungerla occorre superare tre varchi controllati da uomini della polizia penitenziaria e da telecamere che monitorano ogni angolo. Le grandi porte d’acciaio dei corridoi si aprono elettronicamente, manovrate a distanza dalla sala controllo.
Il rumore secco provocato dallo scatto della serratura si propaga velocemente in questo braccio che è avvolto dal silenzio e protetto dall’acciaio. Sembra di rivedere le immagini interne di Sing Sing o Alcatraz. Dalle celle, poi, non arriva nessun rumore. È come se fossero vuote. Invece ci vivono 98 detenuti. E quelli che stanno al pian terreno ogni tanto devono fare i conti con le acque putride delle fogne che esplodono, perché vecchie di cinquanta anni.
Nell’alta sicurezza vive il palermitano Stefano Ganci, uno degli assassini di Giovanni Falcone, ci sono detenuti calabresi e napoletani. E c’è anche l’ex autista del padrino veneto Felice Maniero. È l’unico che si vede, perché è giorno di visita: per incontrare i familiari si è vestito a festa con un abito color argento, camicia bianca aperta e capelli lunghi legati a coda di cavallo.
Ma l’inferno deve ancora arrivare. Bisogna attraversare un altro padiglione, con uno sgarrupato corridoio, con altre porte d’acciaio e telecamere, per arrivare alla “porcilaia”. Non è l’allevamento di maiali del carcere, ma il nome con cui è chiamata la zona riservata ai “41 bis”. Qui le celle sono piccolissime, e per il momento c’è un solo ospite: Antonio Iovine.
Stretto in dieci metri quadrati, il boss dei casalesi arrestato lo scorso novembre dopo una lunga latitanza, si sente come un leone in gabbia. Dai monitor delle telecamere a circuito chiuso che lo inquadrano 24 ore su 24 si vede che va avanti e indietro. Consuma una sigaretta dopo l’altra.
Le uniche pause che si concede, seduto sulla piccola branda, le dedica a scrivere lettere alla moglie - anche lei detenuta - e ai figli, con i quali ha intensificato, rispetto al periodo della sua latitanza, il rapporto epistolare. Scrive tre o quattro lettere al giorno. In un angolo della cella sono accatastate le carte giudiziarie dei processi in cui è imputato. Lui legge e rilegge gli atti che la procura di Napoli gli ha notificato, prende appunti, cerca una strategia difensiva. L’unico svago è quando sfoglia la “Gazzetta dello Sport”, il solo quotidiano che riceve ogni giorno.
L’arrivo di Iovine a Nuoro ha provocato la reazione della politica e di una parte della società civile sarda, che non voleva il casalese nel carcere cittadino. Anche se tra quelle mura, dove sono molte le situazioni critiche e dove i lavori di manutenzione sono in corso, sono rinchiusi altri criminali della stessa caratura. La struttura, nonostante i problemi di sovraffollamento nella terza sezione, quella dei detenuti comuni, la carenza di organico e i tagli ai fondi (alla criminologa che assiste i detenuti e serve da supporto ai giudici dei tribunali di sorveglianza, il ministero ha ridotto le ore da 64 a 8 al mese), è guidata con grande professionalità dalla direttrice, Patrizia Incollu, sarda di 45 anni, che da 17 vive in carcere.
I terroristi islamici detenuti in Italia sono rinchiusi invece a Macomer, in provincia di Nuoro, capitale della produzione di birra. Dall’esterno non appare come un carcere, sembra piuttosto una caserma con un giardino curatissimo, aiuole sagomate e pareti imbiancate di fresco. Da qui sono passati un paio di prigionieri provenienti da Guantanamo, e pure un altro accusato dell’attentato di Madrid. Gran parte di loro è sotto processo a Milano.
Si trovano nel reparto di alta sicurezza, dove la sala tv è stata trasformata dal direttore del carcere in un luogo di preghiera. Il carrello con la cena inizia a passare alle 17. E durante il Ramadam ai detenuti di religione islamica viene consegnato il cibo crudo, che consumano dopo il tramonto. Ed è in questa occasione che il direttore concede il permesso di riunirsi per la preghiera.
A differenza degli altri detenuti, quelli accusati di terrorismo sono difesi da importanti avvocati, che spesso arrivano fin qui a bordo di auto di grossa cilindrata, a volte guidate da un autista. Sono avvocati che costano ma i 34 islamici (otto accusati di essere terroristi) sembrano poterseli permettere. Ad Al Qaeda sarebbero legati quattro tunisini, un egiziano, un afghano, un marocchino e un iracheno. Eppure tutti si dichiarano innocenti: “Vittime di errori giudiziari”.
Non è permesso avvicinarli né parlargli. Due anni fa i reclusi dell’alta sicurezza di Macomer avevano iniziato lo sciopero della fame contro il trasferimento in questo istituto, sinonimo di punizione perché è qui che vengono mandati i detenuti violenti colpiti da provvedimenti disciplinari. Ed è qui che ha trovato posto, fra i carcerati ordinari, anche il nipote di Graziano Mesina, il bandito sardo di Orgosolo.
Il giovane, arrestato per piccoli reati, poco prima del nostro arrivo ha aggredito un altro detenuto, ed è stato rinchiuso in isolamento su ordine del direttore: “E un bravo ragazzo”, spiegano alcuni compagni di cella, “ma è stato preso dalla Balentia”, un concetto di valore dei banditi della Barbagia, un’azione di cui vantarsi per farsi apprezzare ad Orgosolo una volta uscito dal carcere: “Perché lui è il nipote di Mesina e deve far valere il suo nome, anche quando non ce n’è bisogno”.
Se ci si sposta a 50 chilometri a nord di Nuoro, immersa nel verde, e fra le montagne di Onanì, si scopre una realtà carceraria completamente diversa dalle altre. È la casa di reclusione di Mamone che si estende su 2700 ettari, una struttura aperta, dove i detenuti si dedicano ad attività agricole e di allevamento. In questa colonia ci sono solo persone che devono scontare una pena inferiore a quattro anni. Su 250 solo uno su cinque è italiano. I detenuti che lavorano vengono retribuiti dal ministero. Rispetto ad alcuni anni fa, oggi con la riduzione dei fondi per le retribuzioni delle mansioni ha portato a un ridimensionamento delle ore di lavoro, per permettere a tutti di lavorare almeno tre ore al giorno e guadagnare circa 400 euro al mese: “Fino a poco tempo fa ci sono stati extracomunitari che si facevano arrestare e condannare appositamente per venire in questo carcere a lavorare. Poi con i soldi guadagnati acquistavano casa nel loro Paese”.
In questo posto isolato dal mondo c’è tutto quello di cui un’azienda agricola si può occupare: dall’allevamento di cavalli, ai maiali selvatici, ai bovini e ovini. Tutto basato su prodotti biologici, coltivati qui. Ci sono vasti campi di ortaggi e frutta, un caseificio e una piccola macelleria. Ma nulla di tutto questo è in vendita al pubblico. Come pure i cavalli, i maiali, le pecore e le mucche che qui nascono e muoiono. Il ministero della Giustizia non vuole commercializzarli. Eppure con quello che potrebbe essere ricavato della vendite si potrebbe sostenere la manutenzione della colonia, che invece ha molti problemi strutturali e pochi fondi.
Durante il giorno i detenuti, lasciati liberi, sono impegnati nei lavori agricoli, al pascolo o nell’allevamento, nelle mansioni domestiche e nella manutenzione. Fino a un decennio fa c’era anche un piccolo villaggio, ormai abbandonato, in cui vivevano le famiglie delle guardie. Un agente di polizia penitenziaria, che oggi è in servizio a Mamone qui c’è nato, ed ha scelto di continuare a lavorarci, come già aveva fatto suo padre.
E sempre qui, ha confidato ai colleghi, quando morirà, vorrà essere sepolto. Perché Mamone è l’unico carcere che ha un camposanto. Su una collinetta quasi un secolo fa è stata costruita una piccola cappella, attorno alla quale è sorto il cimitero.
Si contano circa cento croci di ferro arrugginite piantate nel terreno, allineate in file da otto, sulle quali però non è scritto alcun nome. C’è pure qualche lapide di marmo, rovinata dal tempo. Su tutte sovrasta quella in cui è sepolto dal 1942 il medico del carcere. Lì a fianco c’è una più piccola: vi è sepolta una neonata, morta durante il parto alla vigilia di Natale di 50 anni fa. Storie di buoni e di cattivi. Che il carcere sardo incrocia.
(* da “l’Espresso” 24 giugno) 

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