venerdì 10 giugno 2011

La condanna? OZIO FORZATO PER TUTTI


Il dogma cattolico individua sette modi di essere o di agire che definisce “vizi capitali”: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e per ultimo accidia. Ovvero la non-voglia di fare, il disinteresse all’azione, l’ozio. Ed un celebre detto popolare recita: “L’ozio è il padre di tutti i vizi”. Da ciò se ne potrebbe trarre che i primi sei derivano (direttamente o indirettamente) da esso. La fonte di tal detto (il popolo) è delle più autorevoli se è vero, come dicevano i romani, che “vox populi, vox dei”. In fondo il senso comune, che spesso coincide con il buon senso (qualità spesso apparentemente assente nelle menti di coloro che dimorano e lavorano nei palazzi), è nella quasi totalità dei casi la miglior chiave di lettura delle situazioni quotidiane e delle vicende umane, dalle più semplici alle più complesse.
Un altro proverbio, sulla falsariga del precedente, esalta le virtù quasi taumaturgiche dell’attività lavorativa, sottolineando che “Il lavoro nobilita l’uomo”. Allora quale miglior medicina per coloro i quali hanno smarrito la cosiddetta “retta via” o comunque hanno deviato da essa? Una sana dose di lavoro per far ricomprender loro la giusta prospettiva dalla quale va vissuta la vita. Se pensiamo ai tempi antichi, una delle pene maggiormente comminate ai detenuti erano proprio i lavori forzati: “Io ti costringo a lavorare affinchè tu possa scontare il tuo debito verso la giustizia e comprendere i tuoi errori” (ma questo secondo passaggio anche allora veniva taciuto). E’ chiaro che il ricorso ai lavori forzati non aveva nessuno scopo riabilitativo se si considera il contesto nel quale le persone venivano costrette, senza riposo ed in pessime condizioni igieniche a causa delle quali gran parte dei condannati periva.
Tuttavia oggi, in una società che molti (non chi scrive) considerano illuminata e civile, i metodi spacciati come “rieducativi” non sono affatto migliori, seppur diametralmente opposti a quelli dei tempi passati. Lo Stato oggi, tramite l’istituto del carcere, condanna coloro i quali debbano scontare una pena, all’ozio forzato. Persone costrette a restare chiuse in celle anguste fino a 22 ore al giorno, senza la possibilità di coltivare un hobby, svolgere un’attività, rendersi utili alla società. Forse si potrebbe obiettare che sia più facile starsene a far nulla che essere costretti a lavorare e che quindi i detenuti odierni dovrebbe essere grati al Legislatore. No. Questa è una punizione ben peggiore. E’ una punizione subdola perchè lavora dentro le persone senza che esse se ne possano accorgere.
La forzata inattività rende apatici, depressi, disinteressati a tutto. Erode dal di dentro la personalità di un uomo emarginandolo dal resto del mondo, giorno dopo giorno. Costringe a sentirsi inutili, instilla nell’animo l’idea che il mondo non abbia alcun bisogno di noi, che la società continui a vivere tranquilla, indifferente alle nostre vicissitudini. Conduce alla totale perdita dell’autostima, alla completa disgregazione dell’io. Fino all’estremo gesto.
Ma è evidente che il Legislatore ritiene che tutto ciò non sia di primaria importanza. Anzi, forse è proprio il suo scopo: emarginare dalla società coloro i quali potrebbero raccontare come si vive da “ospiti forzati” dello Stato e smascherare la dilagante ipocrisia di chi osanna la certezza della pena in nome di una giustizia che ogni giorno altro non fa che negare se stessa con le proprie azioni. Ed in tale contesto la brillante ed illuminata mente del Legislatore cosa auspica come rimedio? Un cospicuo incremento del numero di agenti penitenziari, perfettamente in linea con la visione repressiva che lo caratterizza. Non psicologi, non educatori, non personale specializzato che possa portare sostegno e conforto a coloro che si trovano reclusi. No, meglio tanti nuovi “guardiani”, per assicurarsi che nessuno osi chiedere, pretendere il rispetto dei propri diritti, pensare. In fondo si tratta di una scelta molto più facile e popolare che fa leva su una delle nostre caratteristiche primordiali più radicate: la paura. “Tutti baratterebbero un po’ di felicità per un po’ di sicurezza”, osserva Umberto Galimberti, uno dei massimi filosofi del nostro tempo.
In questa semplice frase si riassume il punto di vista dell’azione del Legislatore: dare al popolo ciò che desidera, ciò che soddisfa maggiormente i suoi più animaleschi istinti, non importa se questo sia eticamente, moralmente ed umanamente sbagliato. In fondo politica ed etica sono due facce della stessa moneta che mai possono comparire contemporaneamente. Per riprendere il parallelo con il mondo antico, cosa faceva l’imperatore per aggraziarsi la benevolenza del popolo? Regalava loro i “ludi”, un sanguinario spettacolo nel quale i gladiatori (schiavi e detenuti, in ogni caso reclusi) si massacravano in mezzo alle grida trasudanti violenza della folla. Ed in occasione di tali giochi elargiva loro la sua generosità tramite la distribuzione di cibarie.Placare la loro fame e far sfogare il loro desiderio di violenza: ecco ciò che era sufficiente all’imperatore per compiacere il popolo, almeno temporaneamente. Bastone e carota: quel che basta per ricondurre alla ragione ogni bravo asinello.
I tempi sono cambiati, ma animali eravamo e animali siamo, perciò dotati di istinto; tuttavia oggi si hanno maggiori possibilità di comprendere la realtà, di interpretarla senza limitarsi a subirla, di criticarla senza viverla unicamente in maniera asettica. La cultura ed il sapere non sono più patrimonio di pochi; i libri, i giornali, la rete, sono veicoli di cultura e di conoscenza che, se ben utilizzati, permettono di potersi costruire un proprio punto di vista. Perciò mettiamo in moto la nostra intelligenza, non lasciamo che si assopisca davanti agli odierni ludi (reality & co.) che ci vengono propinati con lo scopo apposito di farci trascorrere intere serate con il cervello spento, affinchè non possiamo renderci conto che nel frattempo attorno a noi, da qualche parte, si stanno consumando ingiustizie, violenze, abusi che puntualmente verranno taciuti, insabbiati, mai raccontati.
Riprendiamoci la nostra capacità di pensare e a chi ci dice: “Non preoccupatevi, ci penso io” rispondiamo: “No, anche io voglio pensare”.
Antonio Piazza


fonte:
CaffèNews

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