domenica 12 giugno 2011

Liberi, liberi, liberi .... di mangiare!


Liberi di mangiare


Nelle ristrettezze del carcere, tra molti drammi e qualche sorriso, sbocciano cuochi provetti e si inventano gustose ricette. Lo raccontano i detenuti di San Vittore in “Avanzi di galera, le ricette dei poco di buono”


Cena in cellaPer chi sta fuori il carcere è come un cassetto remoto nel quale si ripongono cose inutilizzate. Uomini e cose di cui ci si dimentica facilmente, perché una volta messi lì, quegli uomini, come quegli oggetti poco funzionali, non saranno più né un problema né un intralcio per la nostra quotidiana esistenza; e noi saremo liberi nella nostra beata sicurezza.
Eppure, come ci racconta Emilia Patruno, giornalista e volontaria presso il carcere di San Vittore, “non occuparsi della vita dentro le carceri non è soltanto un atto di grave indifferenza, ma anche un atteggiamento poco lungimirante proprio in nome della nostra sicurezza, dato che molti dei 59.000 detenuti oggi in carcere – a fronte di una capienza di 41.470 posti, ndr– prima o poi usciranno. Dunque sapere come vivono e cosa pensano potrebbe giovare quanto meno ai nostri stessi interessi”. 

Per gettare un ponte tra il mondo dentro e quello fuori, Emilia Patruno insieme ai detenuti di San Vittore ha dato vita in questi anni a tante iniziative di comunicazione: dalla rivista al sito www.ildue.it, dalla sit-com “Belli dentro” per Canale 5, all’ultimo nato:“Avanzi di galera, le ricette dei poco di buono”, edito da Guido Tommasi editori (in origine un cd-rom vincitore del Copertina Avanzi di galeraPremio Cenacolo 2004). “Il libro – ci spiega Emilia – è nato per far capire che il carcere non è esattamente un hotel a quattro stelle e per far conoscere un aspetto determinante della vita da detenuti. L’alimentazione e il cibo sono in carcere quasi un’ossessione in cui convergono l’ennesima pena corporale e l’unica possibilità di fuga. Mangiare bene in carcere è quasi un impresa, ma parlando di cibo, cucina e ricette i detenuti si rianimano e sembrano, per un attimo, riuscire a dimenticare dove si trovano. Tanto che qualsiasi volontario potrà raccontarvi l’aleggiare perenne degli aromi culinari tra le celle del carcere”. 
Il risultato è un libro intelligente e ironico in cui si sorride ma dove ogni tanto sale il groppo in gola. Un libro di cucina carceraria, di storie di sopravvivenza alimentare e di quotidianità culinaria nel luogo in cui, in nome dell’imperativo ‘sicurezza’, tra le mille cose vietate c’è anche l’accesso ad un’alimentazione decente. 

Ma procediamo con ordine: “Non è come nei film americani. Non c’è una mensa comune. In carcere si mangia in cella, chiusi, con orari da ospedale”. Il cibo viene preparato in carcere da detenuti impiegati in cucina. “Il vitto viene distribuito due volte al giorno – alle 11,30 e alle 17,30 – e di solito su un carrello che dovrebbe essere termico, ma che in realtà non lo è”. Quanto al menù, descritto nelle tabelle vittuarie delle direzioni carcerarie, varia in tradizionale, islamico e per malati. Poca verdura (per lo più patate), cibo di scarsa qualità (la cosiddetta ‘sbobba’) e una ripetizione delle vivande quasi ossessiva (vedi le patate).
L’ordinamento penitenziario sostiene poi che “ai detenuti e agli internati è assicurata una alimentazione sana e sufficiente… (art.9 della legge 26 luglio 1975, n°354)” ma, per Renato Vallanzasca, che ha curato la prefazione al libro, “forse non è stata sottolineata la scarsità del cibo e delle poche calorie che vengono elargite giornalmente ad un ragazzo di 20/25 anni […] che si mangerebbe un toro con tutte le corna e che, almeno un paio di volte al settimana, si deve accontentare di cenare con un panino, 50 grammi di formaggio fuso non meglio identificato e altrettanti grammi di erba cotta…”. E se da qualche tempo, i mussulmani hanno la possibilità di evitare la carne di maiale, per i vegetariani rifiutare la carne può significare ritrovarsi nel piatto “anche 12 uova a settimana”. 

La sopravvivenza del gusto ha, allora, due possibili vie: la spesa che i detenuti possono ordinare allo spaccio interno due volte a settimana, e il pacco che, chi ha famiglia, può ricevere dall’esterno. L’uno e l’altro hanno ovviamente limitazioni e controindicazioni. Il pacco può contenere generi di abbigliamento e alimentari – supposto che il detenuto abbia qualcuno che cucini per lui – per un massimo di 20 kg al mese in 4 volte. 

Tutti gli alimenti contenuti nel pacco saranno ispezionati. “Il che significa – ci spiega ancora Emilia – che il salame, la carne e il pesce saranno tagliati, il ragù rimestato e così il tiramisù… a volte con lo stesso cucchiaio.”

Con la spesa invece, che è accessibile solo a chi ha disponibilità economica, non si possono ordinare alcolici (tranne in alcuni casi vino in cartone), funghi, lievito e dolci (solo merendine... una pena nella pena). Ma, alle limitazioni dell’Ordinamento penitenziario possono aggiungersene altre a discrezione della direzione del carcere.

Gli strumenti costruiti in cellaLa spesa però, con tutti i suoi limiti, rappresenta il vero salvacondotto per un’alimentazione più gustosa e una vita arricchita almeno dal piacere di un buon piatto di pasta.

 Da circa 30 anni infatti ai detenuti è consentito “nelle proprie camere, l’uso dei fornelli per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande e cibi di facile e rapido approntamento. (art.11 comma 4, d.p.r. 30 giugno, n° 230)”. 

E se non è raro che il suddetto fornello si trovi “a meno di 30 centimetri dallo scarico della turca”, e ancora che “i coltelli non esistono” e che “la materia prima è scadente”, forse perché “i cattivi devono essere di bocca buona”, il fornello in cella ha rappresentato, nell’alimentazione carceraria, una vera e propria rivoluzione. 


La possibilità di cucinare i propri piatti, sebbene richieda uno sforzo notevole nell’arte di arrangiarsi, è diventata insieme atto creativo e raro momento di piacere; nonché, continua Emilia, “motivo di grandi soddisfazione ed eterno riconoscimento da parte degli altri concellini per lo chef di ogni cella”. 

Così dalle celle, più che bevande e cibi precotti, cominciano ad essere sfornati, con miracoloso ingegno, Spaghetti ai frutti di mare Zucchine in salsa per l’ergastolanoRisotto alla milanese sporcato con panna e Polpette di pane alla umile. Ma non mancano il cous cous, la pizza (cotta in un forno-fai da te dall’inquietante potere incendiario) e lo yogurt fatto in casa. Nelle privazioni del carcere il cibo, cucinato con un’attenzione e una cura rari altrove, diventa un modo per ricreare una parvenza di normalità, recuperare la familiarità coi sapori, socializzare e avvicinare culture diverse. 

Ogni ricetta, nel libro, è condita con la storia di chi l’ha inventata arrabattandosi tra avanzi di pane secco e fame atavica, o accompagnata dal racconto della consolazione suscitata da un piatto di pasta nelle angustie della prigione. Storie come quella di Edoardo, affranto dalla sua prima sera in galera, che dopo l’accoglienza in cella a base di spaghetti alle cozze e rosmarino, calamari ripieni, insalata, caffé e Gitane recupera quel tanto di distensione per confessare stupito ai suoi concellini: “Se fossi morto ieri, non avrei mai saputo che in galera ci sono persone come voi!”.

Per chi sta fuori, in effetti, è fin troppo facile pensare che in carcere ci sono i delinquenti (tanto più se a chi tenta di commettere un reato si può anche sparare) e non persone che hanno commesso un reato, un errore e magari l’hanno pure reiterato, perché come sostiene Emilia “spesso e volentieri erano semplicemente persone con poco spazio mentale, uomini privi degli strumenti culturali necessari per fare una scelta diversa. 

Non sta a me giudicare l’utilità del carcere. A me interessa che queste persone imparino a prendersi le proprie responsabilità. Ma per farlo c’è bisogno anche che il mondo esterno si avvicini alla realtà carceraria: più attenzione c’è, più il carcere è democratico, più, chi ci vive, ha la possibilità di apprendere altre strade.” Con questa convinzione da 16 anni Emilia passa metà delle sue giornate in carcere, “così – ci spiega – nel caso dovessi essere condannata per qualche reato posso sempre chiedere uno sconto di pena.”
Elisabetta D'Agostino





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