lunedì 30 maggio 2011

Carcere, tra dolore, redenzione e la nostalgia di un cappellano


Don Giuseppe ha dismesso gli abiti di cappellano del carcere di Voghera, non lo si incontra più nelle sezioni, a colloquio nei corridoi, nelle celle, oppure nei passeggi cementati: don Giuseppe Baschiazzorre non c’è più.
Il delitto è chiaramente un crimine odioso, inaccettabile, per cui occorre una giustizia giusta, ma che rappresenti la pena come un tragitto di vita, che al suo declinare espliciti forza e umanità sufficienti, per ricomporre quell’inalienabile istanza che lega e salda le persone: la solidarietà sociale.
Giustizia come trasformazione che coinvolge l’interezza della persona, dell’ultimo degli uomini, dalla sua colpa e dal suo rimorso, quale anticamera di ben altra dimensione.
Giustizia che non veste l’abito del mito, ma consente di aiutarmi e farmi aiutare, e possibilmente di essere di aiuto agli altri, ai meno fortunati, affinché non abbiano a scavarsi la fossa con le proprie mani.
Forse quel prete conosciuto tanti anni fa intendeva dire proprio questo, richiamando la nostra attenzione alla necessità di una cultura della legalità, nel rispetto di tutte le persone.
In quella sorta di terra di nessuno che è il carcere, don Giuseppe Baschiazzorre è stato un movimento lento, ma inarrestabile, soprattutto inalienabile, nonostante le contorsioni perverse prodotte dai meccanismi spersonalizzanti che si sprigionano da quel pianeta sconosciuto. Ricordiamo quell’uomo con le croci degli altri ben cucite addosso, tanto da farle proprie. Rammentiamo l’uomo e poi il sacerdote; l’uomo con lo sguardo in alto, sebbene tra l’incudine e il martello; dei vertici penitenziari distanti, dei detenuti inchiodati alle loro colpe.
Ritroviamo intatta la sua capacità di credere e sperare nell’uomo nuovo, insieme agli antichi insegnamenti: “occorre riesaminare continuamente il passato per approdare a un mutamento interiore che costruisca civiltà nell’amore”. Patrimonio, questo, di quella sua cristianità che non regala facili ammende, o percorsi illusoriamente in discesa.
Rimangono le sue parole che non sono mai di ieri, parole di giustizia, anche per gli ultimi, in un carcere ancora troppo lontano dalla parabola evangelica del figliol prodigo, ancora troppo a misura (o peggio dismisura ) di una mentalità che considera il pagare una regola che va onorata, ma disinteressandosi dell’assenza e dello spirito della Costituzione, quindi dello stesso Vangelo.
Persino all’interno di una prigione, di una solitudine imposta, di uno spazio angusto, non c’è solo l’eternità della penitenza, ma il bisogno di un aiuto, la necessità di un recupero che riconduca alla propria dignità tra gli uomini.
E’ con questi pensieri che oggi salutiamo don Giuseppe, con la gratitudine di chi sta imparando che giustizia e perdono vanno conquistati e meritati, con cura e attenzione, nella fatica e negli impegni assunti in tutti i giorni.
Vincenzo Andraous

fonte: InviatoSpeciale

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