venerdì 20 maggio 2011

Carcere. Non resta che il corpo


VALENTINA ASCIONE

Non resta che il corpo, a volte. Ultimo luogo di raccoglimento quando lo spazio vitale inizia a mancare. Il solo compagno per la mente laddove regna, incontrastata, la solitudine.
 Il corpo, sul quale il tempo lascia gli unici segni tangibili del suo corso lento, impercettibile per chi non ha come ammazzarlo, il tempo. Trincea di una vita apparente per uomini resi zombie dal perenne, amaro far nulla. E significante di un dolore muto, zittito da una cattività senza diritti.
Non resta che il corpo, a chi non ha voce, per esprimere il disagio e l'insofferenza. Nient’altro che quello dunque, in carcere, anche come strumento di resistenza. E di lotta. 
E così, man mano che le condizioni di vita dietro le sbarre diventano più dure e intollerabili, aumentano gli atti di autolesionismo. Al punto da non poterli più contare. Ma anche se si potesse, non sarebbe una stima attendibile perché molti casi restano sconosciuti, come cronaca ordinaria all'interno delle mura carcerarie. E quelli che emergono e fanno notizia, sono quasi sempre portati alla luce dagli agenti di polizia penitenziaria, portavoce di un mal comune senza gaudio.
Ufficio stampa di Rita Bernardini e dei Radicali. Scrive per il giornale "Gli Altri".
E' una sofferenza trasversale, infatti, quella che in galera inghiottisce e corrode gli animi da una parte e dall'altra delle sbarre. Un malessere che non fa differenza tra "guardie e ladri", ma li uccide entrambi. 
Tra i morti in carcere dell'ultima settimana, tre nel giro di poche ore, c'era anche Giuseppe Ledda, 42 anni, Ispettore di Polizia penitenziaria in servizio a Viterbo. Martedì scorso è entrato in stanza per cambiarsi e invece si è sparato un colpo con l'arma di ordinanza. È il terzo poliziotto suicida dall'inizio di quest'anno. Negli ultimi dieci si sono tolti la vita in 87. 
E’ anche a tutela degli interessi degli agenti penitenziari che i detenuti della seconda sezione di Regina Coeli sono in lotta dal 15 maggio, armati solo del proprio corpo che hanno smesso di nutrire. Uno sciopero della fame a oltranza, intrapreso a sostegno di quello che il leader radicale Marco Pannella porta avanti da ormai un mese; e fino a ottenere il trattamento già previsto dalla Costituzione: nessun detenuto gode infatti delle garanzie sancite dall'articolo 27, né di 7 metri quadrati di spazio, come scritto nel Codice Penale, né tanto meno di una riabilitazione effettiva, che lo scoraggi dal tornare a delinquere. Obiettivi raggiungibili solo con un provvedimento di amnistia, che attraverso il digiuno i detenuti di Regina Coeli, degli altri istituti che aderito a questa iniziativa e oltre duecento tra i loro familiari, chiedono al governo di adottare
. Allo stesso governo che soli pochi giorni fa, nella persona del ministro della Giustizia, tesseva le lodi di un sistema carcere che funziona proprio perché si è scelto di non varare amnistie o indulti. In un altro paese, magari. Quello in cui - nonostante un tasso di sovraffollamento del 150 per cento, 63 morti in cinque mesi e 24 suicidi - il carcere funziona, sì. E gli asini volano.
*da “Gli Altri”

Fonte: Home

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