giovedì 14 luglio 2011

Carceri, un girone infernale

Carceri, un girone infernale

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Dina Galano (Inserto domenicale)
SOCIETA'. La situazione dei penitenziari italiani è insostenibile tra sovraffollamento e mancanza di elementari norme igieniche. I detenuti sono in rivolta anche per appoggiare l’azione di denuncia di Marco Pannella. Mercoledì scorso cento direttori di altrettanti istituti di pena si sono dati appuntamento vestiti a lutto all’ingresso del ministero della Funzione pubblica di Renato Brunetta. Non hanno la carta igienica, i dentifrici e i materassi per i loro detenuti. Ma neanche un contratto di categoria che li riguardi. Come ogni anno, la protesta esplode nel periodo in cui le condizioni di detenzione sono insopportabili
D'ora in poi, una volta entrati si butta via la chiave. 
Non molto tempo fa si guardava al carcere italiano come a “un sistema a porte girevoli”, dove si scontano pene brevi o custodie cautelari, dunque si esce, per poi rientrare altrettanto rapidamente per recidiva e per mancanza di alternative all’esterno. 
Il 30 per cento degli ingressi torna in libertà dopo tre giorni. Il freddo meccanicismo della “porta girevole” colpisce sempre i più deboli per ceto, per istruzione, per inserimento sociale ed è il frutto sia delle più recenti politiche incriminatorie che si sono abbattute soprattutto su stranieri e tossicodipendenti, sia di una giustizia “di classe” che favorisce soltanto chi con mezzi propri riesce ad accedere al binario garantista del nostro bicefalo sistema penale. 
Quell'andirivieni dei soliti noti è stato da sempre riconosciuto come fattore predominante dello spropositato sovraffollamento penitenziario, al terzo posto in Europa, con oltre 67mila detenuti rispetto ai quasi 46mila posti disponibili.
 Da questa estate, invece, dovrà fare i conti con un concorrente da non sottovalutare.
Dal 16 giugno scorso, infatti, le cooperative sociali e le imprese private si sono viste recapitare una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in cui si comunica «l’esaurimento del budget destinato agli sgravi fiscali e contributivi per l’anno 2011». 
La nota, che ha già allarmato gli operatori del settore, si riferisce ai fondi destinati all’attuazione della legge Smuraglia (l. 193/2000), meritevole opera di collegamento tra realtà carceraria e mondo del lavoro e conquista del nuovo millennio, rubricata «norme per favorire l’attività lavorativa dei detenuti». 
Con effetto immediato, dunque, le cooperative, i consorzi, le associazioni e le aziende dovranno scegliere se barrare la casella a favore della continuazione del rapporto d’impiego nonostante la decapitazione del contributo pubblico all’assunzione di detenuti in carcere o ai domiciliari, o quella della sua risoluzione per «giustificato motivo». Tagli agli incentivi, si potrebbe tradurre.
Un appello online
Mentre l’amministrazione «auspica che il datore di lavoro intenda mantenere i contratti con i detenuti ristretti in questa casa di reclusione», è indubbio che non in pochi glisseranno l’invito. 
Le prime avvisaglie erano state intercettate a febbraio, quando una circolare interna al Dipartimento sollecitava a fornire i dati sulla forza lavoro nei termini previsti e «considerando il trend di costante crescita delle posizioni lavorative e quindi degli sgravi richiesti da cooperative e imprese», a ritenere «indispensabile procedere a una consistente riduzione del budget».
 I direttori dei penitenziari del Lazio sono stati i primi a essere colpiti dallo stop agli stanziamenti del Provveditorato regionale e i primi a lanciare l’allarme. Non agevolare il lavoro all’esterno, oltre che a tradursi in un danno per il percorso di reinserimento sociale che la Costituzione vuole tra i fini della pena (comma 3 dell’art. 25), significa congestionare le carceri sovraffollate, hanno sottolineato.
Chiudere tutti in cella proprio durante l’estate.
 Nel solo 2010 hanno trovato un regolare contratto di lavoro presso cooperative sociali 518 persone recluse, mentre 348 hanno lavorato presso aziende private; sono state 2.000 quelli che, invece, hanno lavorato di giorno all’esterno per tornare a fine giornata in cella (regime di semilibertà o applicazione dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario); in media circa 7.000 l’anno hanno frequentato corsi di formazione professionale. A questi, infine, vanno aggiunti coloro che sono pagati dalla stessa amministrazione penitenziaria e che sono occupati nei servizi interni agli istituti.
L’associazione Antigone, nella sua attività di vigilanza delle garanzie del sistema penitenziario e penale, ha lanciato un appello online a tutti gli interessati affinché si ponga rimedio. «Se dovesse essere confermato, così come pare, migliaia di detenuti in misura alternativa rientreranno in carcere in quanto licenziati dai loro datori di lavoro andando a peggiorare una situazione di affollamento penitenziario già insopportabile». Infine la richiesta rivolta ai dirigenti del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria): «Usare tutti i soldi della Cassa delle ammende, compresi i milioni già promessi per progetti non ancora avviati oppure le decine di milioni messe da parte per l’edilizia penitenziaria, allo scopo di dare copertura finanziaria alla legge Smuraglia quanto meno sino alla fine dell’anno. Non fare questo ora sarebbe un errore tragico».
Un anno fa, il 6 luglio 2010, nasceva nella solennità conferita dalla presenza di Gianni Letta, del Guardasigilli Alfano e dal capo dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta, l’Agenzia nazionale reinserimento e lavoro per detenuti ed ex detenuti (Anrel). 
L’ente avrebbe espletato il compito di coordinare e favorire l’accesso all’impiego, proprio come «un’agenzia di collocamento». Ma, secondo il suo stesso statuto, anche di promuovere una «rieducazione che punta al recupero umano, sociale e spirituale della persona».
 L’afflato evangelico del nuovo Anrel è presto spiegato: oltre alle Acli nazionali e la Prison fellowship International partecipanti al progetto, l’intera gestione è stata affidata alla Fondazione “Mons. Di Vincenzo”, costola del Movimento del rinnovamento nello Spirito santo. Il valore dell’operazione stabilito in 4 milioni e 800mila euro.
 La fonte del gettito, la cassa delle Ammende (il fondo tradizionalmente destinato alle attività per il reinserimento dei detenuti). Anche un anno fa, cooperative e datori di lavoro privati si trovarono scalzati e protestarono con forza di fronte al trasferimento dell’ingente somma a un soggetto pressoché sconosciuto tra gli operatori carcerari. Presieduto da Salvatore Martinez, il Movimento del rinnovamento dello Spirito santo vanta in Italia più di 200mila aderenti, tra cui anche Angelino Alfano, neo segretario del Pdl. La sua base è a Enna, dove ha sede l’Ente morale “Istituto di promozione umana Mons. Francesco Di Vincenzo” mentre Caltagirone ospita l’unica esperienza realizzata con ex carcerati.
 Dal luglio 2010, il sito web dell’Anrel è ancora in costruzione. Oggi è tra i progetti di cui si chiede la sospensione. Quei cinque milioni di euro sarebbero utili all’attuazione della Smuraglia.
A ben vedere, le risorse per far continuare almeno fino al 2011 i contratti di lavoro potrebbero essere estirpate al cosiddetto “Piano carceri”. Anche questo provvedimento di edilizia penitenziaria che impone la costruzione di venti nuovi padiglioni e di undici istituti di pena è figlio dell’amministrazione Alfano. E, in previsione, costerà 661 milioni di euro, la gran parte (circa 100mila euro) anche qui scippata alla cassa Ammende dei detenuti. Varato a giugno 2010, il Piano costituisce la principale misura del tridente composto da un provvedimento a favore della detenzione domiciliare (rinominato “svuota carceri”) e di un programma di assunzioni di personale di polizia (non realizzato), complessivamente finalizzato a decongestionare il sovraffollamento carcerario. 
Il “Piano carceri” cui il Commissario straordinario Franco Ionta sta lavorando da anni prevede la realizzazione, entro il 2012, di 9.150 posti detentivi, a fronte di un fabbisogno attuale di circa 23mila. 
Con la crescita media mensile di 700/800 nuovi ristretti, anche qualora si realizzasse nei tempi sarebbe insufficiente a far rientrare i penitenziari al di sotto della soglia della capienza tollerabile. A un anno e mezzo dalla proclamazione dello stato di emergenza nazionale, l’unico cantiere avviato è a Piacenza, mentre si prevede che la maggioranza dei nuovi posti letto si realizzi nelle carceri del Meridione, quelle di Puglia, Campania e Sicilia tra tutte.
Spicca intanto la schizofrenica situazione degli istituti abbandonati di cui, nel settembre scorso, la Corte dei Conti ha chiesto al Dap «puntuale e circostanziata informativa»: il carcere di Morcone a Benevento, ultimato, abbandonato, ristrutturato e mai aperto; il Busachi in Sardegna, costato 5 miliardi di lire e mai in funzione; Castelnuovo della Daunia a Foggia, perfino «arredato inutilmente da cinque anni»; il Revere a Mantova, con i lavori fermi al 2000 e i cui locali sarebbero stati saccheggiati; Rieti, che dopo anni ha visto aperta soltanto una sezione femminile per la mancata disponibilità di personale in servizio.
La beffa “svuota carceri”
Il secondo troncone del piano di interventi deciso a Via Arenula prevedeva l’emanazione di un disegno di legge rubricato “Esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a un anno”. 
Approvato definitivamente a metà novembre scorso dopo una lunga battaglia parlamentare che ne ha visto stravolgere il testo originario, è un provvedimento che consente l’alternativa dei domiciliari a chi, purché «non si verifichi la concreta possibilità che il condannato possa darsi alla fuga ovvero possa commettere altri delitti», rimane da scontare meno di 12 mesi di pena. La decisione, affidata alla discrezionalità del magistrato di sorveglianza, non ha nulla dell’automatismo auspicato da alcuni per dribblare le lungaggini burocratiche.
In definitiva, la versione propagandistica di provvedimento amnistiale concesso per ridurre il sovraffollamento non ha dispiegato l’effetto auspicato di mandar fuori 8.000/10.000 persone. Dalla sua entrata in vigore, l’ormai sconfessato “svuota carceri” ha permesso l’uscita anticipata dalle prigioni di appena 2.666 detenuti. Le ragioni, oltre alla suddetta verifica del requisito soggettivo della non inclinazione a ripetere il reato o alla fuga, stanno tutte nelle disfunzioni del sistema nel suo complesso. 
Oltre il 47 per cento dei reclusi non sta scontando una condanna in via definitiva, il 50 per cento dei condannati, invece, resta escluso perché appartenente a categorie (come ex articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) a cui è normalmente interdetta la fruizione di qualsiasi misura alternative. Da sottrarre, poi, tutti i detenuti stranieri che normalmente sono privi della garanzia dell’alloggio, indispensabile per concedere i domiciliari. 
Infine, quello che il ministro dell’Interno Roberto Maroni e Carroccio al seguito volevano far passare per «indultino» scadrà nel 2013 e fino ad allora è difficile credere che l’evoluzione delle condizioni del sistema carcere potrà favorirne l’applicazione.
Battitura in corso
Lo stesso fragoroso richiamo si alza prima della mezzanotte dai 206 penitenziari italiani. Nel gergo carcerario si chiama “battitura”: pentole e sedie percuotono ritmicamente porte blindate e inferriate.
I detenuti protestano contro le condizioni di reclusione in spazi ridottissimi, le docce razionate, le appena due ore d’aria al giorno. In questo momento stanno “battendo” i sessanta internati di Saliceta San Giuliano, alle porte di Modena, i ristretti delle Vallette di Torino, gli sfortunati dell’Ucciardone (Palermo) che si sono meritati una denuncia per «schiamazzi notturni». Ma è chiaro a tutti ormai che più si rumoreggia, più chi dovrebbe sentire diventa sordo. Dunque, quest’estate i detenuti sono passati alla più difficile delle proteste, rifiutando i carrelli delle vivande ed esponendosi a ulteriori ripercussioni. 
A catena, in migliaia, hanno aderito allo sciopero della fame che il radicale Marco Pannella sta conducendo dal 20 aprile scorso. Trani, Borgata Aurelia, Ferrara, Pesaro, Rovigo, Spoleto, Bologna procedono a oltranza. I familiari dei detenuti scelgono la stessa astensione dal cibo.
Perfino i direttori degli istituti e i sindacati di polizia scelgono la protesta, di piazza, contro il sovraffollamento e le condizioni di lavoro insostenibili. Turni prolungati, insufficienza di personale e isolamento hanno portato i liberi che lavorano in carcere a sentirsi al pari dei loro detenuti.
 Mercoledì scorso cento dei direttori italiani si sono dati appuntamento all’ingresso del ministero della Funzione pubblica di Renato Brunetta vestiti a lutto. Perché non hanno la carta igienica, i dentifrici, i materassi per i loro detenuti, ma neanche un contratto di categoria che li riguardi, costretti come sono a uniformarsi ai rapporti di lavoro dei funzionari della polizia di Stato. Se perfino i responsabili delle case di pena italiane sono arrivati a sostenere l’utilità di un’amnistia, le proteste dei reclusi dovrebbero acquistare adeguato riconoscimento.
A ogni cento posti letto corrispondono 148 detenuti. Qualcuno si deve arrangiare, e lo fa con materassi per terra, con l’innalzamento di un piano dei letti a castello, con la trasformazione in dormitori delle poche aree comuni rimaste. Nei corridoi, trasformati in celle, nelle palestre e perfino nelle stanze deputate alla degenza e alle emergenze sanitarie. Nel carcere partenopeo di Poggioreale i detenuti stendono asciugamani e lenzuola bagnate alle finestre per proteggersi dal caldo opprimente. In sette metri quadrati a Pesaro si vive in tre. Nel sesto raggio di San Vittore a Milano nello stesso spazio sono stipati in sei. Scabbia e tubercolosi sono segnalate in diffusione in molti istituti. A Viterbo a ogni detenuto spetta un’unica doccia al giorno e in un orario prestabilito.  All’Ucciardone di Palermo, la cui costruzione risale al 1832, a maggio scorso è stato scoperto il «canile», un quadrato di appena un metro quadro per lato, dove si veniva rinchiusi in isolamento per più di 12 ore. A Santa Maria Capua Vetere (Caserta) l’acqua è razionata e manca per 10 ore al dì.
Al 30 giugno, nelle nostre prigioni si contano 67.394 ristretti a fronte di poco più di 45mila posti. Di questi, oltre 24mila sono stranieri e quasi 3mila le donne. Nei primi sei mesi dell’anno, sono cento i suicidi avvenuti e documentati da Ristretti Orizzonti, trenta secondo le statistiche del dipartimento. Franco Ionta, il responsabile del Dap, in una recente intervista a Radio Vaticana ha tuttavia ammesso senza mezzi termini che «le carceri italiane hanno superato i limiti della sostenibilità». Quell’emergenza, riconosciuta per decreto, che gli ha conferito poteri straordinari da commissario «non è affatto finita» e le concrete condizioni di reclusione rischiano quest’estate di darne prova ulteriore.

fonte: http://www.terranews.it/

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