mercoledì 13 luglio 2011

Fine pena: ADESSO

Luglio è già qui e spalanca le porte al più caldo dell'anno. La colonnina di mercurio sale inesorabile. L'asfalto si scioglie sotto le suole delle scarpe, nei parchi l'erba ingiallisce seccata dal sole.
I condizionatori lavorano a pieno regime, nelle case e negli uffici. Che man mano si svuotano per le ferie.
Le spiagge invece si riempiono, come le strade del centro di turisti. Intanto si celebra il rito stagionale del primo maxiesodo e migliaia di vacanzieri si riversano nelle autostrade a bordo delle proprie macchine verso lidi o montagne, dove starsene un po' al fresco. Al fresco per davvero. Non per quel beffardo modo di dire che, mentre la temperatura aumenta, sembra prendersi gioco di decine di migliaia di persone. 67.400, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia.
La calda estate italiana dietro le sbarre è già torrida. sovraffollamento arroventa le celle piccole e fatiscenti, dove l'umidità e il sudore di troppi corpi stipati in pochi metri rende l'aria pesante, irrespirabile. In carcere, del resto, perfino la doccia può essere un lusso, concesso solo alcuni giorni a settimana o per pochissimi minuti al giorno. E a volte i detenuti devono scegliere se lavarsi o uscire in cortile per l'ora d'aria: una decisione non semplice per chi è costretto a trascorrere in cella venti, ventidue o addirittura ventitré ore, a guardare il soffitto sdraiato sulla propria branda. Sdraiati, perché in letti a castello di tre o quattro piani la distanza tra un materasso e l'altro è di appena poche decine di centimetri. Sdraiati, poiché li dove non c'è spazio per le sedie l'alternativa è stare in piedi. Ma se si è in troppi diventa necessario fare i turni anche per quello: perfino per starsene appoggiati al muro. Fermi.
Nel carcere di Padova ci sono 96 posti e 196 detenuti: nelle celle singole si sta in tre, in quelle da quattro ci si arrangia in sei e in quelle da sei in nove. A Siano, in provincia di Catanzaro, fino a cinque persone possono dividere una cella di quattro metri per quattro, mentre nel sesto raggio di San Vittore, a Milano, sei detenuti si spartiscono sette metri quadri. A Poggioreale, carcere tra i più grandi d'Europa, si possono contare fino a quattordici persone in un'unica cella dove il bagno confina con l'angolo cottura. E se a Santa Maria Capua Vetere uno spazio di 2,7 metri per 4 può ospitare anche otto reclusi, al Canton Mombello di Brescia in trenta metri quadri sono sistemati, come sardine, ben quindici detenuti.
Sono questi alcuni esempi contenuti nel dossier dell'associazione Antigone sulle condizioni detentive in Italia, dal quale emerge un quadro ai limiti del grottesco, se si pensa che una direttiva europea recepita dal nostro Paese in materia di protezione dei suini dispone che questi vadano allevati in una superficie minima di sei mq, ottimale di nove. Un quadro drammatico, allarmante, che viola apertamente gli standard europei secondo cui a ciascun detenuto spetterebbe uno spazio di almeno sette mq in cella singola e di quattro in cella multipla: parametri al di sotto dei quali la detenzione diventa una forma di tortura, vietata dall'articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo. E proprio sulla base di questa violazione 350 detenuti di istituti italiani hanno presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, che su due casi ha già chiesto spiegazioni al nostro governo. E forse farebbe bene a preoccuparsi, il governo, alla luce del precedente che nel 2009 ha visto lo Stato italiano condannato a risarcire Izet Sulejmanovic, detenuto bosniaco recluso nell'istituto romano di Rebibbia dal novembre 2002 all'aprile 2003, perché per tutta la durata della pena aveva potuto disporre di soli 2,7 mq.
La mancanza di misure efficaci per far fronte al grave stato di sovraffollamento presta il fianco a una potenziale pioggia di ricorsi, soprattutto se la popolazione carceraria continuerà ad aumentare a ritmi vertiginosi. Antigone ha calcolato che in tre anni, dal 2007 al 2010, il numero di detenuti è aumentato del 50 per cento, staccando di oltre 20mila unità il limite considerato "regolamentare". Una corsa inarrestabile, che di certo non ha contribuito a rallentare la scarna azione di governo. La legge sulla detenzione domiciliare per le pene inferiori a un anno, fortemente voluta dal guardasigilli Alfano e battezzata con l'ambiziosa denominazione di "svuotacarceri", ha finora permesso la scarcerazione di appena 2.600 reclusi. Un vero flop, determinato dall'eliminazione in sede di discussione del ddl di quel prezioso automatismo che avrebbe evitato di dover sottoporre ciascun caso ai meccanismi lenti e malandati del nostro pachidermico sistema giudiziario; e che invece è stata posta come condicio sine qua non per l'approvazione del testo da parte chi, sventolando la bandiera securitaria, aveva agitato il fantasma di un nuovo indulto. Come se quello varato nel 2006 non avesse dato risultati lusinghieri in termini di recidiva. Solo il 30 per cento di coloro che cinque anni fa hanno usufruito di quel provvedimento è infatti tornato a delinquere, a fronte di un tasso medio di recidiva "ordinario" che si aggira intorno al 68 per cento.
È un indicatore illuminante, la recidiva. Un dato inconfutabile, che inchioda alla propria inefficacia un sistema penitenziario che affonda le proprie radici in una cultura repressiva e coercitiva. Una cultura che confonde la pena con la mortificazione della personalità, dei diritti dell'uomo, prima che del detenuto. Ciò fa sì che il lavoro, canale principale per quelle finalità rieducative che la legge attribuisce alla pena e per la reintegrazione di chi ha imboccato la strada sbagliata, venga confinato nel superfluo, tagliato, sacrificato. Eppure le statistiche dimostrano che l'accesso a un'attività lavorativa durante la pena contrasta fortemente la recidiva; così come le misure alternative alla detenzione in carcere, capaci di abbassarla fino al 20 per cento.
Per un carcerato lavorare è sempre più difficile. I rubinetti della cosiddetta legge Smuraglia, la quale prevede sgravi fiscali per cooperative che assumano detenuti, sono ormai a secco. Ma anche le occupazioni intramoenia scarseggiano. Per non parlare delle altre attività trattamentali o delle risorse per il sostentamento stesso dei detenuti.
Le ore di assistenza psicologica, già al lumicino, hanno subito ulteriori tagli e i sindacati di polizia penitenziaria avvertono che tra pochi mesi inizieranno a mancare i fondi perfino per il vitto dei detenuti.
Da qualche parte accade già. A Viterbo, ad esempio, dove i reclusi hanno raccontato che il carrello dei pasti arriva vuoto alla fine del corridoio perché non ci sono abbastanza soldi per sfamare tutti; e così ogni giorno il carrello inizia il giro da un lato diverso così da evitare di lasciare a bocca asciutta sempre le stesse persone. Nel carcere bolognese della Dozza invece sono finiti i letti e, riferiscono gli agenti, alcuni detenuti sono stati costretti a dormire sul pavimento. Ci sarebbe da chiedersi cosa debba ancora accadere perché le istituzioni intervengano per fermare il collasso del sistema, la strage di vite, lo scempio di legalità che quotidianamente si compie nelle nostre galere. Anche ai danni di innocenti. Di migliaia di reclusi in attesa di giudizio che - chissà fra quanto saranno rimandati a casa con tante scuse, ma senza più un capo da cui riprendere il filo del proprio destino. Sono oltre il 40 per cento, infatti, i detenuti che non hanno una condanna definitiva e le statistiche suggeriscono che la metà di loro sarà riconosciuta innocente. Circa il 30 per cento, invece, sono tossicodipendenti; molti dei quali, in base alla legge, potrebbero essere affidati a comunità terapeutiche e invece marciscono in galera imbottiti di psicofarmaci, facili prede di istinti suicidi.
La custodia cautelare, la legge sugli stupefacenti e sull'immigrazione sono le falle che ingolfano la macchina giudiziaria e riempiono le galere. Nonostante questo nessuno ai posti di _comando si assume la responsabilità di invertire la rotta e scegliere la strada della depenalizzazione. Il pianeta carcere non può più sostenere l'impatto di politiche securitarie, giustizialiste, messe in atto per intercettare, cavalcare e montare gli umori peggiori del paese alla ricerca del consenso elettorale. Del paese che nulla sa e nulla può sapere dell'emergenza umanitaria in corso al di là delle mura di cinta, perché l'informazione, sempre più spesso a rimorchio della politica, presta maggiore attenzione alla giustizia di pochi, ad personam. E non a quella che, con il suo carico di processi arretrati - sia penali che civili - tiene in ostaggio milioni e milioni di cittadini italiani e danneggia anche la nostra già disastrata economia, ad esempio scoraggiando chi anche dall'estero potrebbe investire in Italia, ma non lo fa per paura di restare intrappolato nel tunnel di una causa legale senza fine.
E non sa, il paese, nemmeno della mobilitazione in atto da quasi tre mesi nelle carceri su tutto il territorio nazionale. E fuori, tra i familiari dei detenuti che scontano una pena solo in apparenza meno dura di chi oltre le sbarre - mariti e mogli, padri e madri, figli e figlie - aspetta solo di riabbracciarli. Tra gli operatori penitenziari: i direttori, gli agenti di polizia penitenziaria, gli avvocati, gli psicologi, gli educatori. Della mobilitazione dell'intera comunità penitenziaria, dove tutti - liberi e non - sono vittime del medesimo carnefice: uno Stato "delinquente" perché incapace di rispettare la propria legge. La mobilitazione che ha visto e vede, ormai, circa 20mila persone aderire allo sciopero della fame lanciato il 20 aprile scorso dal leader radicale Marco Pannella, per sollevare l'attenzione sull'emergenza carceraria e sulla crisi della giustizia. In 20mila chiedono un'amnistia. Un"Amnistia per la Repubblica", per sbloccare il sistema e riavviarlo. Per riportare le nostre galere a livelli minimi di legalità costituzionale e non tornare indietro, mai più. Un'amnistia vera contro quella strisciante, e di classe, che ogni anno manda in prescrizione quasi 200mila procedimenti per chi ha i mezzi per assoldare giganti del Foro. Mentre le prigioni diventano discariche sociali per poveri, stranieri, disabili psichici, tossicodipendenti: scuole di delinquenza dove in moltissimi casi si entra innocui e si esce criminali. E si muore ogni giorno, anche restando vivi.
La lotta di questo esercito nonviolento non fa notizia, o comunque è meno appetibile dei tafferugli, delle cariche o delle sassaiole. Eppure è proprio la nonviolenza dei detenuti a far sì che il sistema non imploda del tutto. Il senso di responsabilità con cui collaborano - in fondo alla gestione dell'ordine, resistono e sopportano la violazione quotidiana dei diritti per conservare intatta la propria dignità. E una rivolta da ammirare e sostenere, fino a rompere il muro del silenzio e porre fine alla scandalosa inciviltà delle nostre carceri. Una rivolta da cui ciascuno può perfino imparare. Imparare - perché no? - da chi ha sbagliato.
Articolo di Valentina Ascione pubblicato su Gli Altri, il 08/07/11
fonte: http://www.radicali.it/

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