domenica 31 luglio 2011

”Non lo voglio io, lo vuole lo Stato e voi tutti dovete obbedire”.



Il corpo di polizia penitenziaria rappresenta l’interfaccia tra lo Stato ed i detenuti, tra il rigore e la severità nel rispetto delle leggi e la fragilità e la precarietà di una condizione umana di grande disagio e di restrizione.
Ricordo il primo giorno, alla prima ora d’aria, l’addetto alla sorveglianza giustificarsi di alcuni divieti senza senso, nel richiamarsi solennemente allo Stato e alle sue regole, del quale egli si sentiva evidentemente un umile, quanto efficace, servitore.
”Non lo voglio io, lo vuole lo Stato e voi tutti dovete obbedire”.
La libertà e la salute sono i beni supremi dell’uomo e quando sono compromessi l’individuo si sente smarrito.
Negli ospedali, dove a vacillare è la salute, gli infermieri rappresentano l’equivalente dei secondini, ma i primi si configurano agli occhi del malato come un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi fiduciosi e sono pervasi da una volontà di aiuto e di donazione sconosciuti ai secondi, i quali interpretano il loro impegno in maniera diametralmente opposta, applicando pedissequamente un regolamento in alcuni passi di ottusa severità e penosamente coercitivo, dando così luogo ad un pessimo rapporto di tipo autoritario con i sottoposti e soffocando l’atmosfera boccheggiante che si respira nei nostri penitenziari, nei quali per migliorare la vivibilità bisogna agire più sull’uomo che sulle strutture.
Le mie conclusioni sono state formulate dopo pochi giorni di esperienza, per cui dovrebbero avere un valore probatorio trascurabile, ma sono suffragate dall’esperienza dei tanti detenuti che mi hanno confidato i loro lunghi anni trascorsi in svariati luoghi di pena della penisola, dove il rapporto di presunta sudditanza è costantemente vissuto con malinconica rassegnazione.
Spesso anche negli ospedali, prevalentemente al sud, vi è la consuetudine, segno di pessima educazione, da parte del personale medico e paramedico di dare del tu al paziente, ma a volte in questo eccesso di confidenza vi è anche lo scopo di familiarizzare con il malato e di accollarsi parte delle sue sofferenze; a Poggioreale, viceversa, il tu sistematico ed è lo specchio di una subordinazione assoluta che il Potere… vuole infliggere al detenuto. Non credo che la legge o i regolamenti carcerari diano precise istruzioni in materia. Sono o dovrebbero essere lontani i tempi del Fascismo, quando s’imponeva ai cittadini l’uso del voi, mentre il lei, come magistralmente ci ricordava Totò, era stato abolito.
Sembra una questione secondaria che forse ha toccato solo la mia sensibilità, ma vi assicuro, essere chiamati sprezzantemente col tu da un figuro forse in possesso della licenza media, quando si hanno alcune lauree, provoca una mortificazione ed un senso di perdurante impotenza che non facilita l’instaurarsi di un rapporto con il personale di custodia, il quale dovrebbe essere sereno e di fattiva collaborazione.
Sentivo i miei compagni di cella, nei rari casi di necessità, chiamare le guardie pomposamente “assistente” e sorridevo sardonico, perché mi sembrava un titolo inutilmente adulatorio, ma quando è capitato a me di dovermi rivolgere loro non ne ho trovato uno più appropriato.
L’impressione negativa che ho maturato sul comportamento del personale di custodia ha come sempre le sue eccezioni, tra le quali rammento volentieri “Baschillo”, un agente soprannominato in tal guisa per l’insolita abitudine di tenere il basco d’ordinanza nei galloni della spalla sinistra; un personaggio di grande umanità e simpatia da me incontrato spesso nella zona dedicata ai colloqui con l’avvocato. Più di una volta è capitato, se eravamo da soli, che m’invitasse a camminare più lentamente, affinché potessimo scambiarci qualche confidenza e potesse chiedermi qualche consiglio medico o di vita.
Rammento la luce che comparve gioiosa nei suoi occhi quando gli dissi che lo avrei ricordato nelle pagine del mio libro.
Personalmente, per una patologia al tallone, avevo un permesso medico, segnato sulla cartella clinica, di poter circolare con dei sandali aperti al posto delle scarpe. Almeno cento volte sono stato richiamato e ho dovuto spiegare la situazione, trenta o quaranta volte sono stato ripreso perché mettevo la mano in tasca, una cosa ritenuta molto grave, indice inequivocabile di comportamento strafottente e bisognava umilmente giustificarsi con la necessità di prendere il fazzoletto per una rinite allergica, la quale non mi ha lasciato in pace un minuto; credevo inoltre che le mani dovessero tenersi dietro la schiena nel camminare o al passaggio delle guardie, mi sbagliavo ed anche per questo sono stato ammonito, alla fine non sapevo dove metterle.
A me francamente tutti questi richiami, ossessivi e ripetitivi, sono sempre sembrati delle inutili stronzate, forse previste dal regolamento, ma allora bisogna impegnarsi a cambiarle quanto prima queste norme ottuse ed inutilmente persecutorie.
Un infermiere, per ritornare al paragone iniziale non si permetterebbe mai di redarguire un paziente ed in queste apparenti inezie vi è la sostanziale differenza tra assistenza (ma non li chiamiamo così, assistenti? E pare sia di loro gradimento) e la petulante imposizione di astratti comportamenti.
Nell’immaginario comune i carcerati sono configurati con un più o meno elegante abito a strisce, una sorta di pigiama fin de siecle, viceversa è concesso vestirsi con una certa libertà, non certo in calzoncini e canottiera, ma abbastanza casual, gli agenti, non parliamo poi dei graduati, hanno invece l’obbligo di vestire in maniera molto severa e coprente, con baschi e cravatte, per cui anche loro sono costretti a soffrire il caldo e più di uno, in gran segreto, mi ha pregato di segnalarlo.
Probabilmente si riuscirebbe ad ottenere una migliore e più gradita vivibilità cambiando qualche passo del regolamento penitenziario, più che avventurandosi in faraonici e dispendiosi programmi di ristrutturazione dei bagni penali.
I direttori possono di loro iniziativa prendere qualche provvedimento, anche se le norme sono farraginose e la possibilità di variarle da parte dei funzionari è modesta; Come appare lontana la pur vicina geograficamente Svizzera, dove, in particolare nel Canton Ticino, grazie ad una politica federale che privilegia l’autonomia e quindi anche il decentramento nel settore dell’esecuzione delle condanne, si è riusciti a trovare una soluzione a molti problemi, incluso quello fondamentale dell’affettività in carcere, privilegiando il contatto diretto con le persone care. E questo a partire quasi subito dopo l’inizio dell’esecuzione delle sentenze.
Sembra fantascienza ma è realtà, ritorneremo sull’argomento nell’appendice quando parleremo di Amore al tempo della galera.

Fonte : Le tribolazioni di un innocente - Breve ma intenso viaggio nell'inferno del carcere di Poggioreale - di 

                                                                                                                        Achille della Ragione



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