sabato 30 luglio 2011

… ti condanno a non finire in carcere


Libri: “Giustizia relativa e pena assoluta”, di Silvia Cecchi … ti condanno a non finire in carcere


Tempi, 28 luglio 2011

E se non fosse la detenzione il migliore dei sistemi possibili per “ottenere giustizia”? 

Il sorprendete saggio del magistrato Silvia Cecchi spiega cosa fare contro la “collera del diritto” in tempi di manette egualitarie
“Cerco solo giustizia”.

 Quando sentiamo pronunciare queste tre paroline siamo già in vista di un tintinnar di manette. C’è la vittima (o il rappresentante di un’associazione di vittime) che parla da qualche parte. Sarà un salotto lacrimante? Un corridoio di tribunale? Con tutt’intorno alle telecamere il grappolo di curiosi e supporter?
Siamo qui per trarre commercio dall’eccitazione sentimentale degli spettatori. Perciò quelle tre paroline sono sempre uguali. Sul set. Come dentro un articolo di giornale che, austero, ci sta spiegando per il ventesimo anno consecutivo perché a Palermo c’è solo quell’industria lì. Ecco forse la ragione vera per cui non viene mai in mente a nessuno il famoso “braccialetto elettronico”.
Ecco perché non si pensa e non si insegna a pensare che la forma retributiva di un delitto può consistere in una pena alternativa al carcere. Sembra aver l’aura di quelle istituzioni sorte con Adamo ed Eva: un po’ come la guerra del famoso soldato fatto prigioniero in Iraq, l’istituzione carceraria sembra fatta apposta “per rimettere a posto le cose rotte”. E dire che, al contrario, perfino il Logos sostiene fin da principio le pene alternative. Adamo ed Eva non vengono imprigionati dopo la violazione dell’Eden.
Vengono buttati fuori e condannati a lavorare. La paternità di questa osservazione è di Vittorio Mathieu. Filosofo che ha firmato la postfazione a un saggio di vibrante e brillante accento anti carcerario. E poi un saggio sorprendente. Perché l’autore non è uno psicologo, un assistente sociale o una vittima di malagiustizia, ma un magistrato, un pubblico ministero. Insomma, uno che fa questo mestiere di mandare in galera le persone.

Già il titolo è in controtendenza rispetto alla vulgata messianica: “Giustizia relativa e pena assoluta”. È l’ammissione di un limite insuperabile piuttosto che un’esaltazione della legge e dei suoi amministratori. L’autrice è Silvia Cecchi, sostituto procuratore a Pesaro. Agile e denso di osservazioni, molte delle quali frutto di vicende vissute in prima persona dall’autrice, il volumetto è appena uscito per i tipi di Liberi Libri, piccolo editore di Macerata, ma con una produzione interessante che spazia dalla saggistica storica a escursioni nella cronaca e nel dibattito di attualità.
Quello della Cecchi ha il pregio di abbracciare entrambi i campi, la storia e la cronaca, con sintesi e appropriatezza.

 Dunque, tanto per cominciare, la moderna istituzione ove c’è chi amministra (lo Stato guardia penitenziaria) e chi sconta le pene (i detenuti) nasce solo nel 1700. E nasce in conflitto di civiltà con il cristianesimo. Che nell’epoca più perfetta della storia (altro che “secoli bui”), il Medioevo, era privo di istituzioni carcerarie propriamente dette e si affidava a forme di restrizione della libertà che erano avventizie (reclusione in attesa del processo) o claustrali (in seguito a una condanna) e seguivano i principi del diritto canonico.
Tale diritto prevedeva la pena di morte (pena che giustamente il catechismo cattolico non ripudia totalmente ancora oggi), ma non esisteva l’idea di teorizzare la colpa e la pena in se stesse, farne oggetto di imperativo morale (come il categorico kantiano), di diritto dello Stato a punire e di dovere del reo di accettare la punizione. Fino all’illuminismo e alle sue prime giustificazioni teoriche-filosofiche (in Kant, Hegel e Feuerbach), spiega la Cecchi, “la pena carceraria è una pena residuale e
sussidiaria rispetto alla pena pecuniaria, assolutamente predominante in periodo medievale, nel ruolo collaterale alle pene capitali e alle pene corporali”. Muri, chiavi, blindi, catene Mutatis mutandis, oggi non occorre essere cristiani per riscoprire la razionalità e l’equilibrio di un sistema (quello medioevale) che era molto più pratico e molto meno dispendioso per la collettività di quello attuale, ipocritamente egualitario e obbligatorio per ogni reo.

Oggi però, avverte la Cecchi, non foss’altro che per gli errori giudiziari e la situazione catastrofica in cui versano le carceri italiane, si avverte la necessità di trovare misure cautelative alternative. Il nostro circuito penitenziario scoppia di detenuti in attesa di giudizio che, secondo le statistiche, almeno per il 40 per cento, saranno dichiarati innocenti. E allora, si chiede la Cecchi, cosa osta a questa ricerca razionale e giuridica di una giustizia “mediativa, riparatoria, restituiva, conciliativa”?

Il problema, par di capire, è un pò quello delle case farmaceutiche che vanno forte con un certo medicinale: per quale ragione dovrebbero finanziare la ricerca di un’altra molecola, magari più efficace ma alternativa all’altra che intanto garantisce a una certa industria remunerazione e successo? Così, osserva la Cecchi, “la sopravvivenza, nell’ordinamento, di una sanzione penale afflittiva-retributiva come è quella carceraria attuale è l’ostacolo maggiore all’affermazione di una giustizia mediativa e ripartiva”.

Ma la pena ci deve essere e dev’essere afflittiva, “per una ragione di simmetria” come pensa il cattolico Mathieu? Siamo sempre lì, senza fantasia e depressi a subire l’ideologia dell’egualitarismo (astrazione indifferente a qualsiasi avvenimento): “Il colpevole ha diminuito la libertà di altri e la sua libertà deve subire una diminuzione corrispondente” (Mathieu).

Dunque nel mezzo dell’epopea delle “manette egualitarie”, dove perfino i radicali finiscono (per la prima volta nella loro storia) a votare l’arresto di un collega deputato, cresce la voglia anche tra i magistrati di smarcarsi da un pensiero unico dominante che accarezza l’audience, vuole il sangue e cerca la plebaglia. Non è la prima e non è il solo magistrato Silvia Cecchi. Abbiamo visto il Procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio discutere con l’avvocato e neosindaco di Milano di giustizia minacciata dai giustizialisti. E abbiamo sentito con quale precisione chirurgica e scientifica il presidente di Corte di Appello di Bari Vito Marino Caferra ha scritto di Giustizia e i suoi nemici. Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza a Milano, ha espresso su queste pagine la propria personale pena sul “declino del diritto penale”. “Non solo la stessa logica del “processo” sarebbe ormai desueta, ma anche gli stessi concetti tradizionali di evento, di colpa, di punizione” ha sintetizzato Brambilla.

Così, ponendosi nelle stessa linea dei magistrati non politicizzati e piuttosto coscienti dei propri limiti, anche Silvia Cecchi mostra nel suo libello di non credere a quella “collera del diritto” che è la pena carceraria. E non ci crede non per ragioni umanitarie, religiose o socio-psicologiche. Non ci crede perché “il problema della pena carceraria risiede innanzitutto nel suo essere un male”. Sia per la sua antigiuridicità che si esprime in prevalenza assoluta della ragione retributiva su ogni altra funzione (educativa) raccomandata dalla Costituzione. Sia per il suo essere “congenitamente vendicativa, indebitamente afflittiva, perché totalizzante, sì che resterebbe tale anche là dove venissero soppressi o mitigati i muri, le chiavi, i blindi e le catene”.
 fonte: RISTRETTI.it



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