sabato 9 luglio 2011

Cronaca dal carcere

Questo mio (inusuale?) intervento è stato pubblicato sul Tirreno ad agosto del 2010.Ve lo ripropongo così come è stato scritto perché la situazioni delle carceri, nel frattempo, è solo peggiorata.

La prima volta che sono stato in carcere – a Volterra, per tre ore, ospite di un premio letterario – non ho dormito per una settimana.

Il mio cervello si rifiutava di accettare che, da quel posto così opprimente (e, credetemi, non potete avere nemmeno una vaga idea di quanto opprimente, se non ci siete stati) una volta entrati, non si può più uscire – non si può tornare a casa, non si può guidare la macchina, accendere una sigaretta a piacimento, scegliere cosa mangiare.

Per anni, magari. Decenni.

Le facce dei detenuti: gente normale.
 Come ce n’è tanta fuori, né più e né meno. 
Guardando negli occhi un recluso o conversando con lui, non puoi risalire al suo crimine, non ce l’ha scritto in faccia. Anzi, il primo pensiero è: “Ma perché questa gente è rinchiusa qui?”.
Eppure molti sono assassini efferati, ergastolani.

Io ero andato lì per fare quello normalmente che so fare: far ridere.
 Mi avevano invitato a fare il “comico”, là dentro. Assurdo. Mi sembrava una scommessa persa in partenza.
 Ero terrorizzato. Principalmente, la domanda che mi scavava mentre aspettavo di esibirmi era: con che “ghigna”, io, potevo entrare lì a parlar male del mondo “esterno” e farli ridere sul nostro (stupido) quotidiano, quando anche la cosa più schifosa che abbiamo noi, fuori, è puro lusso in carcere?

Eppure hanno riso. Si son divertiti. Risate come erano anni che non ne sentivo. 
Stupore. Meraviglia. Forse avevano voglia di quotidiano. Sete di normalità. “Non vedevo uno spettacolo di cabaret da dieci anni” mi ha detto un ragazzo. “Io non ne avevo mai visto uno, tranne che alla televisione”.

Ho preso coraggio. Sono andato a Porto Azzurro, allora, con un progetto della Provincia, “Volontariando”. Ci sono tanti volontari, tante energie, che lavorano intorno al carcere per renderlo un posto migliore. C’è bisogno che sia un posto migliore – me lo ripeto sempre – metti che un giorno ci finisci per sbaglio…

A Porto Azzurro il carcere si presenta subito come una beffa colossale, come la legge del contrappasso fatta realtà: il carcere sorge al centro di un paradiso terrestre, in un luogo dove vorresti vivere una vita intera, un posto pensato più per una villa da ricchi sfondati che per un istituto penitenziario. 
I detenuti da sopra la collinetta che domina il porto vedono tutto quello che c’è sotto, come a dire: “Ciccio, non solo la libertà ti è negata, ma per renderti meglio il concetto, la libertà te la presentiamo sottoforma di mare, gabbiani e di ragazze straniere in vacanza con costumini mozzafiato, tanto per essere chiari”.

Mille volte meglio Porto Azzurro, comunque, con la sua disumana bellezza, delle nostre “Sughere”. Cupe, angoscianti anche da fuori – dentro, sono peggio. Non per colpa di nessuno. Sono peggio e basta.

Lì, per la prima volta, l’altro giorno, mi son trovato davanti ad una realtà che non avevo mai visto: le donne.
Le donne in carcere. Il braccio femminile.
Non penso ad altro da giorni: ragazze, ragazzine, signore, nonne, donne di ogni tipo ed età, bimbe normali, come le troveresti in Baracchina la sera o all’Ipercoop il pomeriggio, che son lì dentro, e lì stanno.
Una racconta una barzelletta al microfono e penso: “Ma cos’è successo qui? Cosa si è rotto? Perché, questa, che ride, scherza e si vergogna della sala che la guarda, è qui dentro?”. Non riesco nemmeno a levarmi dagli occhi una signora bionda sui sessanta, con la cappina azzurra che, vi giuro, poteva tranquillamente essere la mia vicina di casa o la mi’ mamma.

Brutta storia, il carcere.
La regola “sbattiamoli in carcere e buttiamo via le chiavi” non so se vale per tutti. Non ho visto manager. Non ho visto broker, amministratori. O magari c’erano, e non gli ho riconosciuti.
Io una cosa di certo ora la so: se tutti vedessero il carcere com’è perdavvero, prima, preventivamente intendo, son convinto, qualcuno ne rimarrebbe scioccato come ne son rimasto io.

Butto qui una proposta “provocatoria”, ma provocatoria fino ad un certo punto: tra una gira culturale e l’altra, tra una città d’arte e l’altra, portiamo i nostri giovani a visitare un carcere.
Prima di fare qualche cazzata, qualcuno, dopo, secondo me, ci penserebbe due volte

http://ondamarmugi-livorno.blogautore.repubblica.it/

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