domenica 10 luglio 2011

Milano, vivere e morire a Palazzo di Giustizia "Quanti errori commessi con i malati psichici"

Drammi senili, giovanili, rei che delinquono senza sapere di farlo. Se quei muri potessero parlare, oserebbero rimbeccare i giudici che troppe volte hanno mandato in carcere persone bisognose di cure psichiatriche di Gildanna Marrani



Milano, 9 luglio 2011 - Se le aule del Tribunale di Milano avessero un’anima ed una voce, di sicuro lamenterebbero i troppi errori giudiziari commessi per erronea superficialità o mala giustizia ma soprattutto oserebbero rimbeccare giudici e pubblici ministeri per aver troppe volte commesso quell’abitudine che tanta parte ha e ha avuto nel sovraffollamento delle case circondariali del capoluogo lombardo: condannare uomini e donne troppo spesso bisognosi di cure psichiatriche ma non di periodi di detenzioni come avviene e deve per forza (assai giustamente) avvenire verso tutti i “sani” di mente che decidono di delinquere, di “staccarsi” dalla legalità per fini tra i più laidi ed equivoci.

Troppo spesso il delitto, finanche la contravvenzione, il reato non sono frutto di menti lucide, di fredde anime allo sbando abituate all’inganno, alla frode, alla rapina, a reato contro la persona e le cose; troppo spesso il delitto non nasce da una volitiva scelta del male, laddove quest’ultimo sembra avere i crismi di un maggiore fascino rispetto al bene, alla legalità, alla correttezza umana e professionale. Spesso il giudice, quale perito dei periti, commette questo grande e al tempo stesso grossolano errore: condanna giovani, vecchi, uomini, donne, anziani, non coscienti di se e delle proprie azioni, non consapevoli né animati da quel dolo, cioè dalla precisa coscienza e volontà di commettere un crimine, che è uno dei pilastri sui quali si fonda il giudizio accusatorio del PM e la scelta di condanna del giudice.

Ma se diamo una breve ma intensa occhiata a chi popola le carceri milanesi attualmente, vedremmo con sommo dispiacere come una buona percentuale dei detenuti e condannati sia soggetto a cure psichiatriche e clinico-psichiche profonde, come una buona parte degli “abitanti delle carceri” non siano stati condannati soltanto ma debbono anche sopportare il peso di una malattia mentale latente o espressa, di un disagio psicologico senza fine. Ma l’imputabilità del reo, di chi commette un delitto o manifesta disordini e violenza verso il sociale non dovrebbe essere la pietra angolare su cui ruota l’intero meccanismo della giustizia
italiana?

Forse dietro molte condanne e molti giudizi c’è l’errore commesso dagli operatori della giustizia consistente nel non aver sufficientemente valutato condizioni psico-fisiche e disagio sociale del reo, di chi ha sbagliato e deve comunque pagare di fronte alla società. Ed i casi umani e giuridici all’interno del sistema penale e carcerario si sommano e si moltiplicano, rendendo vane le speranze di chi vorrebbe una maggiore solidarietà sociale, anche in virtù dell’articolo 2 della Carta Costituzionale.

Non posso fare a meno di leggere di quante volte il medico si sostituisce al magistrato nella tutela personale del reo o di chi non rientra nella quotidiana “normalità”. Come quel caso di quel giovane ventiquattrenne accusato di coltivare marjiuana all’interno della sua abitazione. Disagio mentale o abile spacciatore? Non si sa, fatto stà che questo giovane uomo, che presentava un passato di solitudine e un trauma per la morte recente del padre, rischiava il carcere, e molto probabilmente per un periodo di grossa durata.

Ma il rischio del tentativo di suicidio e l’intervento rapido di un medico attento e scrupoloso ha permesso di far virare il PM verso un ricovero all’Ospedale Fatebenfratelli di Milano, prima dell’accertamento giudiziario del caso. Scelta giusta, credo, che ha tenuto conto non solo della pericolosità del presunto reo e del reato imputatogli ma anche e soprattutto della condizione infelice e disagiata del suo passato e di turbe psichiche che probabilmente sono state una delle tante cause a spingerlo a coltivare droga.

Il ricovero in Ospedale si è dimostrata una scelta più consona alle reali esigenze del giovane, senza nulla togliere alla sua colpevolezza ed alla doverosa persecuzione della stessa da parte della giustizia milanese. Ma perseguire un malato psichico non è solo contro ogni decenza umana e giuridica ma è anche sintomo di una giustizia disattenta e latitante, che rischia di sfociare nella più grossolana arbitrarietà.

O come quel caso di un anziano signore che sempre a Milano si è presentato all’udienza di separazione con vent’anni di ritardo, rischiando un TSO e incarnando a pieno un vero dramma dell’età avanzata, un vero dramma senile. Anche in questo caso l’intervento dello specialista ha bloccato sul nascere un provvedimento
coatto che avrebbe potuto portare al peggio.

Si è preferito riaccompagnare l’uomo ai servizi sociali per la cura del caso. Drammi senili, drammi giovanili, rei che delinquono senza sapere di farlo, spinti più da un demone interiore di oscura provenienza che da una reale volontà dolosa di danneggiare la nostra società.

Forse solo un più attento esame da parte degli inquirenti su casi apparentemente “piccoli” ma in realtà contornati da una pesante carica emotiva e sociale può salvare tante vite dall’autodistruzione e da una proverbiale emarginazione. Perché se un uomo delinque va punito, se l’azione penale va esercitata il PM ha l’obbligo di farlo, senza sconti né discriminazione.

Ma di fronte al dramma profondo di menti sconvolte nelle file della nostra caotica società l’esercizio dell’azione penale deve inderogabilmente andare di pari passo con l’accertamento della reale imputabilità del sospettato e del reo. Solo così le nostre carceri saranno davvero popolate da chi ha scelto il crimine, e non da chi non ha potuto scegliere perché seguiva solo la sua triste, disperata, contorta patologia interiore.
di Gildanna Marrani
fonte: http://qn.quotidiano.net/

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