martedì 12 luglio 2011

Come si muore in carcere - Katiuscia Favero

Come si muore in carcere
DI COSTANTINO COSSU   
Storie di vite spezzate mentre erano affidate, in regime di restrizione della libertà, 
a strutture di polizia, carcerarie o sanitarie. 
Venti storie, raccontate dal libro curato da Luigi Manconi e da Valentina Calderone 
che Il Saggiatore pubblica con il titolo Quando hanno aperto la cella
Nuda vita, vita inerme cancellata dalla brutalità di un potere soverchiante.
 Come in un campo di concentramento nazista, come nei gulag.
Basta riassumerne uno solo di questi racconti, per capire.
 Il più impressionante descrive il calvario di Katiuscia Favero,  che muore neppure trentenne 
nel fango del cortile di un ospedale psichiatrico giudiziario, ufficialmente suicida.
Già dai tredici anni Katiuscia manifesta un disturbo di personalità borderline e 
comincia a consumare droghe. Compie piccoli reati per procurarsi i soldi. 
Come in decine e decine di altre storie simili, a brevi periodi in carcere se ne 
 alternano altri in cui Katiuscia riesce a farsi aiutare da psicologi e assistenti sociali. 
Poi, nel gennaio del 2002, viene arrestata per il furto di un orologio 
(anche se la madre dice che le prove della colpevolezza della figlia sono tutt’altro che certe) 
e rinchiusa nel carcere di Pontedecimo, a Genova
 (Katiuscia vive a Savona con la madre e una figlia, Juliana).
Non la tengono, però, in cella; dopo la sentenza di condanna il giudice preferisce affidarla ai medici dell’Opg (ospedale psichiatrico giudiziario) di Castiglione delle Stiviere, a Mantova. 
“Qui”,  raccontano Manconi e Calderone, “nel febbraio del 2002 denuncia un medico 
per molestie e due infermieri per violenza sessuale. 
Il giorno successivo alla denuncia, due medici dell’Opg (marito e moglie) dimettono la paziente, 
determinandone così il ritorno nel carcere di Pontedecimo. 
Questa la motivazione: la Favero non presenta significative alterazioni fisiche
tali da giustificare la sua presenza nella struttura. 
Tre anni dopo, il 2 maggio 2005, quando la pena detentiva inflitta a Katiuscia sarà terminata, 
anzichè  essere rimessa in libertà, la donna verrà dichiarata pericolosa per se stessa
e gli altri e le verrà imposto, nuovamente, un periodo di osservazione in un ospedale
 psichiatrico giudiziario. Così Katiuscia Favero, a fine pena, verrà rimandata
 in quello stesso istituto dove aveva denunciato di aver subito violenza e 
da cui era stata allontanata perché considerata ‘non abbastanza inferma di mente’”.
Poteva essere rimandata a casa dalla madre e dalla figlia; la rispediscono, dopo tre anni di galera, 
nello stesso posto dove aveva denunciato di aver subito una drammatica vicenda di violenza 
quando Katiuscia viene riassegnata all’Opg di Mantova, dei tre denunciati uno, un infermiere,
è stato trasferito in un altro Opg, gli altri due, il secondo infermiere e il medico,
 sono ancora al loro posto in attesa che si concluda l’inchiesta per accertare le loro responsabilità).
 La madre di Katiuscia cerca di fare uscire sua figlia da quel posto e riesce a ottenere
il trattamento domiciliare con l’assistenza di una struttura medica pubblica.
 Viene fissata una data, il 28 novembre 2005.
Quel giorno l’incubo sarà finito.
 Ma non andrà così: nella notte del 16 novembre, a pochi giorni dalla sua dimissione,
Katiuscia sarà trovata morta, appesa alla grata di un pollaio nel cortile dell’ospedale, 
con un lenzuolo bagnato stretto intorno al collo.
Ma a parte le non poche incongruenze che vengono subito rilevate a proposito delle modalità
del “suicidio”, perché mai avrebbe dovuto  uccidersi una donna che sapeva che, 
a distanza di pochissimi giorni, il suo strazio sarebbe terminato?
 Troppe le cose che non tornano, tanto più che alle 16.30 proprio del 16 novembre 
la madre riceve una telefonata allarmata di Katiuscia:
 “Mamma portami via da qui. Aiutami, non ce la faccio più. 
Ho paura, stanno succedendo cose strane”. 
Poco più di cinque ore dopo,  Katiuscia è morta.

 Inchiesta della magistratura? 
Così raccontano Manconi e Calderone: “Il procuratore generale di Brescia avoca le indagini e, 
a conclusione delle stesse, emerge una responsabilità in capo al medico di turno quella notte,
 lo stesso indagato anni prima per le molestie sessuali.
 A lui, inquisito per omicidio colposo, si contesta di non aver messo in atto gli interventi 
necessari per impedire la morte della Favero”. 
Ma nel corso dell’udienza preliminare viene emessa sentenza di non luogo a procedere:
 le accuse a carico del medico non sono ritenute rilevanti.
 Della morte di Katiuscia nessuno è responsabile.

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