lunedì 25 luglio 2011

Giustizia: nel purgatorio dei “nuovi giunti”


“L’anno scorso mi sono rotta il femore e per sei mesi sono andata a lavorare ugualmente, in carrozzina e con la bombola d’ossigeno. Ho messo a soqquadro Regina Coeli perché ascensore e montacarichi erano fuori uso. Hanno dovuto mettere in funzione tutto!”. Se vuole sa essere una vera rompiscatole, Ada Palmonella. “Mi chiamavano scassac...”, precisa lei.
Lei, che da oltre un ventennio presidia come psicologa le barricate del fronte penitenziario, a sessant’anni si mostra più combattiva che mai nonostante una malattia cronica le imponga la somministrazione costante dell’ossigeno. 
Affatto stanca di rivendicare i propri diritti di professionista e battersi per il giusto riconoscimento del contributo che la sua categoria offre al recupero dei detenuti. Anche se, quando si riferisce ai suoi assistiti, preferisce parlare di “persone detenute”.
L’idea di persona, che in carcere appare sempre più trascurata, defilata, resa opaca da condizioni detentive che inducono e conducono all’imbarbarimento, ritorna infatti centrale nel servizio di supporto psicologico. “Spesso sono presi dalla strada. Inseguiti, arrestati senza avere il tempo di avvisare la famiglia. E come avere un infarto ed essere portati in ospedale. Dopo avergli fatto le foto e preso le impronte digitali li portano da noi”, o almeno dovrebbero, stando al regolamento dell’amministrazione, “e dopo dieci minuti di colloquio si rasserenano sempre, inevitabilmente. Smettono di piangere, ritrovano se stessi, la propria dignità e ritornano normali. Di nuovo esseri umani”. Persone, appunto.
La dottoressa Ada Palmonella svolge la propria attività con altri sette colleghi nel reparto “Nuovi giunti” del carcere romano di Regina Coeli, a pochi passi dal Tevere e dalla movida trasteverina che, specialmente in queste sere d’estate, stona non poco con il sottofondo dolente che percorre i corridoi al di là delle inferriate.
Il suo compito è valutare le condizioni psicologiche di chi ha appena varcato la soglia del carcere, il pericolo che compia atti di auto o eterolesionismo, e dunque indicare per ciascuno se, ad esempio, si renda necessaria la detenzione in una cella di quelle cosiddette “a rischio”, senza lenzuola né suppellettili, o in una cella normale. Lo psicologo è generalmente la prima figura in abiti civili che si può incontrare dal momento dell’arresto e quei primi, pochi minuti di colloquio servono ad attutire l’impatto con il mondo penitenziario.
Un impatto violento soprattutto per chi, magari appena maggiorenne, è alla prima esperienza con la galera. Non è un caso, infatti, che il rischio di suicidio sia notevolmente più alto nelle prime ore o nei primi giorni di detenzione, quando il senso di smarrimento e lo sconforto sono così profondi da poter più facilmente prendere il sopravvento.
È dunque un ruolo delicato e di grande responsabilità, quello degli psicologi penitenziari, perfino in grado di fare la differenza nel destino di un detenuto, eppure - denuncia Ada Palmonella non tenuto sufficientemente in considerazione. Al contrario: è spesso bistrattato e marginalizzato, lasciato in coda alle priorità come un optional del quale è anche possibile fare a meno. “Siamo pagati a ora: 17 euro lordi, come i collaboratori domestici, anzi, magari come loro! Il tariffario del nostro Ordine però ne prevede 80.
Non abbiamo ferie, né malattie e non avremo una pensione. Praticamente non esistiamo. Non ci danno nemmeno l’indennità di rischio spiega - che in carcere viene concessa persino ai ragionieri che non hanno mai visto un detenuto in vita loro. Noi invece ci sediamo di fronte a loro ogni giorno. Soli davanti a persone appena portate dentro, omicidi, ad esempio, che potrebbero non aver ancora esaurito la carica aggressiva”.
Molte volte la figura dello psicologo resta schiacciata negli ingranaggi della macchina penitenziaria, lamenta Palmonella, che li confina nell’ombra di medici e psichiatri. “Ma il nostro è un lavoro diverso, noi non diamo farmaci”, che spesso servono solo a sedare i detenuti, “noi sappiamo sollevarli senza medicine e li aiutiamo a cambiare dentro”.
È il cambiamento del sé, sostiene la psicologa, la vera chiave per contrastare la recidiva, ancora più di un percorso di inserimento professionale. “Quasi tutti i detenuti quando erano in libertà avevano un lavoro retribuito, ma questo non gli ha impedito di compiere dei reati. Siamo sicuri che con un nuovo lavoro non torneranno a delinquere?”, chiede. “La maggior parte di loro non si rende conto dell’entità del reato commesso, mi dicono: “dottore ma in fondo ho solo rubato una macchina, ho solo svaligiato un appartamento...”.
Si tratta di restituire un valore alle persone e alle cose: se il furto non costituisce per loro un fatto grave, nulla li fermerà dal rubare nuovamente, bisogna fornire loro un altro schema di riferimento dei valori della vita e della realtà.
Gli psicologi hanno gli strumenti per scoprire le risorse interne che le persone, e in questo caso le persone detenute, non sanno di avere per guardare il mondo con occhi nuovi, come fosse la prima volta”. Un trattamento di cui però, alla luce degli ulteriori tagli applicati al monte ore degli psicologi, si possono avvalere solo pochi fortunati.
“La nostra professione nasce con 64 ore mensili, scese poi a 51 e successivamente a 39. Adesso ne abbiamo 24”, alle quali va inoltre sottratto il tempo necessario a chiamare i detenuti e a farli accompagnare al colloquio, tempo che inevitabilmente si allunga nel regime di sottodimensionamento ormai cronico della polizia penitenziaria che vede a volte un solo agente costretto a sorvegliare un intero piano. E intanto la popolazione penitenziaria aumenta.
“Il regolamento del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ndr), che ho appeso in infermeria, dispone che i detenuti nuovi giunti passino prima dalla matricola, poi dallo psicologo e dopo dal medico - spiega la dottoressa - ma quando arriviamo noi, alle 10 o alle 11 del mattino, li troviamo già tutti sparpagliati e dobbiamo recuperarli nelle altre sezioni, dove non c’è posto neanche per sedersi. Molti mi sfuggono, in un turno di tre ore riesco a vederne al massimo cinque e gli altri, si ammazzino pure? Non è bello sentirsi chiamare, sentire invocare il proprio aiuto e non poterlo dare perché non c’è tempo.
Farebbero prima a dirci chiaro e tondo che non ci vogliono, perché quella che viviamo e una situazione ridicola, umiliante per noi e per i nostri assistiti, lavorare in questo modo non serve a niente. Abbiamo scritto diverse lettere per denunciare la nostra condizione, ma il ministro Alfano non ha mai risposto. Praticamente non esistiamo, gli unici a essersi interessati a noi sono Rita Bernardini e Marco Pannella”, afferma la psicologa, che annuncia una causa per mobbing.
Eppure, nonostante la frustrazione di dover operare in un contesto così desolante, il supporto degli psicologi penitenziari può ancora aprire squarci di grande umanità. E ottenere risultati che gettano ombre, legittime, sulla scelta di sottrarre ulteriori risorse al trattamento dei detenuti e stanziare, invece, fior di quattrini per la costruzione di nuovi istituti.
“Non molto tempo fa - racconta - ero sulla via Aurelia ferma al semaforo e c’era li un signore che vendeva fazzoletti, accendini... a un certo punto mi sono accorta che mi stava infilando un sacco di cose in macchina attraverso il finestrino, così allarmata gli ho chiesto: “quanto mi costa tutta questa roba?”, e lui: “niente, dottoressa, perché lei ha saputo tirarmi fuori e quindi io adesso le do quello che ho”. “Sono queste le cose belle del mio lavoro”, osserva Ada Palmonella.
Questi i successi di cui si giova l’intera società. La società che di fronte alla crisi del carcere preferisce voltarsi dall’altra parte.

Di Valentina Ascione
fonte: RISTRETTI.it

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