lunedì 25 aprile 2011

Cronaca di un “primo ingresso” in carcere


È un carcere visto con gli occhi “stupiti” di una visitatrice che si meraviglia per tutte quelle piccole cose incomprensibili, e anche quella massa di piccoli divieti che per un detenuto sono purtroppo di “ordinaria amministrazione”

La testimonianza che segue ce l’ha mandata Nadia, una donna che è stata “ospite” del carcere femminile della Giudecca per qualche ora, per assistere alla presentazione di un libro. Abbiamo deciso di pubblicarla perché, per noi che il carcere lo conosciamo bene, come detenuti e come volontari, è interessante vedere l’impatto che ha con questa realtà una persona totalmente “estranea” e ancora capace di meravigliarsi per certi piccoli assurdi, per certi divieti, per tutto quello che ogni giorno rende così difficile la vita “da galera”.

..... Alla mia destra c’è una piccola stanza dove i “visitatori”, che io immagino siano per lo più i parenti delle detenute, devono fare anticamera, previo controllo di documenti e permessi, in attesa di andare a colloquio. Nella stanza ci sono già altre persone e quando è il mio turno consegno la carta d’identità a un’agente donna che si trova dall’altra parte del muro. Il muro ha una finestra, blindata immagino, che sul lato inferiore ha un aggeggio scorrevole che permette di far passare quasi solo carte. Di fronte a questa apertura, sulla parete opposta, c’è una finestra vera dalla quale si vede il palazzo di fronte e un pezzo di cielo. È alta e ovviamente ha le inferriate. Sotto alla finestra, un vecchio tavolo quadrato forse di formica.  Nella stanza ci sono anche quattro sedie tutte di ferro e il colore scrostato fa affiorare in molti punti la ruggine. Sulla parete di fronte alla porta d’ingresso, è ritagliata un’altra porta attraverso la quale si accede a un bagno. Una volta entrata scopro che non c’è la chiave. Sulla parete col riquadro verde che incornicia il volto dell’agente di turno, c’è una bacheca e, appesi, alcuni avvisi tutti destinati ai parenti. Uno datato 28-12-’96 recita “Si ricorda ai Sig. Parenti che dal primo gennaio 1997 verranno accettate come documenti solo le carte d’identità (né passaporto, né patente)”. Mi lascia perplessa l’impossibilità di usare il passaporto, documento col quale – anche dopo il tristemente noto 11 settembre – si gira il mondo. Mi chiedo perché. Appesi alla bacheca ci sono poi altri due fogli, molto grandi. Si tratta di lunghe tabelle. La prima porta il titolo Tabella n. 1 Generi vittuari e di vestiario consentiti”. La seconda invece Tabella n. 2 Generi vittuari non consentiti”. Mi metto a leggere e la stranezza di quegli elenchi mi convince a prendere qualche appunto. Nei pacchi che i familiari possono far giungere alle loro congiunte recluse, la frutta secca e la frutta esotica sono tabù così come “tutta la frutta non inclusa nei generi consentiti”. Cerco allora nella tabella n. 1, quella appunto dei generi consentiti, e leggo che solo mele e pere vanno bene. Mi chiedo perché una banana, una pesca o una prugna, per esempio, non possono oltrepassare le mura del carcere. Fra i generi non consentiti poi ci sono “dolci, torte, panettoni farciti e no”. Che stranezza! Niente panettoni, anche quelli senza uvetta e canditi, ma sono concessi i pandori. Nemmeno il pane, i pomodori, la cipolla e l’aglio possono entrare così come il sale, le olive e le sardine salate. Nessuna bibita alcolica o analcolica. No ai succhi di frutta, ai biscotti, al caffè, allo zucchero. Mentre capisco la ragione per cui “cibi conservati in vasetti di vetro e/o di metallo” sono vietati, e dunque anche “marmellata, mostarda e nutella”, mi è più difficile comprendere perché il divieto sia esteso anche agli “alimenti integrali in genere”. Per completare l’elenco, sono vietate “creme, salse, minestre preparate”, “mais e cibi liofilizzati” (perché il mais?), “cibi in polvere o in buste sigillate”, “pasta cruda, riso cotto e non”, “tutti i tipi di formaggio molle comprese le sottilette”, e poi uova e funghi siano essi cotti o crudi. Mi è mancato il tempo per annotare i generi vittuari e di vestiario consentiti. Qualcosa però me lo ricordo: la carne cotta può entrare e così gli affettati. Dei vestiti ricordo solo che è consentito l’accappatoio però senza cintura, mentre le scarpe devono essere senza lacci e se invece ne sono dotate debbono però essere molto corti. Ci chiamano, è ora di entrare. Lascio la sala d’attesa, con i muri, che dovrebbero essere bianchi, e sono invece a metà fra il grigio e il giallo sporco, qua e là qualche frase incisa forse con una chiave. Siamo venti, venticinque a voler entrare per assistere alla presentazione del libro. Si apre il cancello blindato e facciamo ingresso in una stanza che fa fatica a contenerci tutti. Siamo costretti a sostare lì, tutti insieme, perché dobbiamo riporre le nostre cose (ad eccezione di libri, quaderni e penne) all’interno di alcuni armadietti. Mentre attendiamo di avviarci verso la sala predisposta all’incontro, sento una donna che, osservando il giardino interno all’istituto di pena attraverso una finestra, dice ad altre due “è emozionante entrare in questo carcere”. Mi mette a disagio l’uso della parola “emozionante”, come se ci si trovasse di fronte a un capolavoro pittorico o architettonico di qualche capitale europea: “Signori e signore iniziamo il nostro galera-tour”. Una agente ci fa strada. Si apre un altro cancello automatico oltrepassato il quale, dopo due o tre metri, saliamo una rampa di scale. Giungiamo a un corridoio e, attraversatolo in larghezza, di fronte a noi si apre una sala conferenze. È lunga, piena di sedie rosse da regista. Fuori dalla porta restano quattro o cinque agenti.

.........Ho avvertito anche fisicamente una sorta di scollamento dentro/fuori, fra chi in carcere è costretto a vivere e chi invece sceglie di entrarci per qualche ragione. Linguaggi diversi, abbigliamenti diversi, sguardi diversi. Ma era la mia prima volta e forse molte cose non le ho capite. Restituisco la chiave dell’armadietto dopo aver ritirato la mia borsa, mi viene riconsegnata la carta d’identità e aperto il blindato. Oltrepasso il portone. Sono libera.

Fonte : RISTRETTI orizzonti

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