VALENTINA ASCIONE
C’è un boia anche nelle carceri italiane
11-10-2010
"Perché hanno lasciato che mi riducessi così?". Non sa darsi pace Graziano. Non può darsene, pensando al tempo perso. Al proprio tempo sprecato da altri. A tutti quei mesi, mesi preziosi, ostaggio di una noncuranza sciagurata. Per un anno intero ha denunciato i dolori atroci che non gli concedevano tregua. Che divoravano le sue giornate di detenuto, interminabili e sempre uguali.
Scandite solo dall'intensità, via via più forte, di quel malessere. E dall'eco dei lamenti tra le quattro mura della sua cella, nel carcere Due Palazzi di Padova. Vano ogni tentativo di attirare su di sé e sulla sua sofferenza le attenzioni dei medici. Vane le richieste, reiterate, di essere sottoposto ad accertamenti, a esami approfonditi, ma anche a una semplice radiografia. La risposta a ogni domanda per dodici lunghi mesi è stata sempre la stessa: una pastiglia di antidolorifici. Un palliativo, utile al massimo a tenere a bada i morsi del male che, all'insaputa di tutti, lo stava consumando dall'interno.
L'indifferenza dei medici - racconta Graziano - non ha barcollato nemmeno quando l'estate scorsa il dolore l'ha paralizzato dalla pancia in giù. Al punto da rendergli impossibile persino fare pipì. "Eh, quella è l'età", è stata diagnosi. Che rivolta a un uomo di 48 anni potrebbe sembrare uno scherzo, ma a un quarantottenne nelle condizioni di Graziano è suonata più come un insulto. Quando finalmente, verso la fine di agosto, l'uomo è stato trasferito in ospedale per i dovuti controlli, si è visto consegnare una diagnosi molto diversa. Quasi una sentenza. Gli esami avevano infatti rilevato un tumore in stato avanzato ai polmoni e alla spina dorsale. "Che se mi fosse stato diagnosticato prima, sarebbe stato curabile, mentre ora ho un piede nella fossa", ha spiegato Graziano, senza giri di parole, ai microfoni della trasmissione “Radio Carcere”. Dove ha raccontato la sua storia di richieste e di diritti inevasi, lanciando l'ultimo interrogativo, pesante come un macigno: perché? Una domanda che forse, più che una risposta, adesso invoca responsabilità. Domenica in tutto il mondo si è celebrata la Giornata contro la pena di morte. Sarà bene ricordarlo anche qui, nella nostra civile Italia, dove i detenuti muoiono quotidianamente, di sovraffollamento, incuria o indifferenza. Dove il boia non si vede, ma c'è. C'è e si chiama "carcere".
Fonte: Notizie Radicali
VALTER VECELLIO
Sterminio italiano e quotidiano
19-04-2011
Nei giorni scorsi, nessuna attenzione, radicali a parte, è stata riservata, alla protesta nonviolenta degli agenti della polizia penitenziaria del carcere romano di Rebibbia, la loro iniziativa di sciopero della fame e sciopero del sonno. Nessuna attenzione, è da credere, sarà riservata all’iniziativa degli agenti della polizia penitenziaria di Chieti, con la lodevole eccezione del quotidiano locale “Il Centro”. Hanno annunciato che non toccheranno cibo fino a quando le loro richieste non saranno ascoltate: “Siamo allo stremo”, denunciano. “Il carcere è sovraffollato, non si può andare avanti così”.
Sono meno di ottanta gli agenti in servizio effettivo che devono occuparsi di circa trecento detenuti: “È il più alto indice di sovraffollamento che la storia di questo istituto ricordi”, protestano i sindacati di categoria in agitazione dal 23 marzo scorso.
La denuncia degli agenti ha però trovato orecchie sensibili in un vescovo, da tempo voce “altra” all’interno della CEI, monsignor Bruno Forte, che ha espresso solidarietà alla loro lotta. Ma le istituzioni, le forze politiche? Non dovrebbero anche loro raccogliere quella denuncia, farsene interprete, sostenere l’iniziativa nonviolenta, aiutare questi “secondini” in questa loro lotta esemplare per i diritti non solo loro, ma di tutti? E se no, perché non lo fanno?
La denuncia degli agenti ha però trovato orecchie sensibili in un vescovo, da tempo voce “altra” all’interno della CEI, monsignor Bruno Forte, che ha espresso solidarietà alla loro lotta. Ma le istituzioni, le forze politiche? Non dovrebbero anche loro raccogliere quella denuncia, farsene interprete, sostenere l’iniziativa nonviolenta, aiutare questi “secondini” in questa loro lotta esemplare per i diritti non solo loro, ma di tutti? E se no, perché non lo fanno?
Ci si scuserà se oggi almeno non ci si unisce al coro dei commenti e delle valutazioni sulla questione del manifesto milanese fatto affiggere da un candidato morattiano contro i magistrati milanesi, del resto esemplarmente stigmatizzato dal presidente della Repubblica. C’è poco da dire, su quella vicenda: è la traduzione di quello che l’inquilino di palazzo Chigi sostiene da sempre. Ed è sintomo, spia di una degenerazione non di ora. Semmai ora risulta più visibile, più percepibile, e gravida di conseguenze, più gravi. Ma anche se è l’anello più stretto e doloroso della “catena”; ma, appunto ultimo anello di una “catena” lunghissima. Di questa “catena” fa parte quanto ogni giorno, tra l’indifferenza dei più si consuma nelle carceri italiane.
Altre notizie cui si presterà pochissima attenzione: un detenuto nordafricano di 30 anni è stato trovato morto nella sua cella nel carcere “Mammagialla” di Viterbo. Il fatto è avvenuto sabato sera ma la notizia è trapelata solo ieri. Era disteso nel suo letto, riverso su un fianco. Gli agenti lo hanno chiamato, ma si sono subito accorti che era privo di sensi. Per circa un’ora lo staff sanitario del carcere ha tentato di rianimarlo, ma non c’è stato nulla da fare. Si chiamava Dioune Sergigme Shoiibou, senegalese, ci informa il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Decesso cardio-circolatorio, si fa sapere.
Giornalista professionista, attualmente lavora in RAI. Dirige il giornale telematico «Notizie Radicali», è iscritto al Partito Radicale dal 1972, è stato componente del Comitato Nazionale, della Direzione, della Segreteria Nazionale.
Era stato arrestato il 4 febbraio, e condannato a sei mesi di carcere. Era arrivato a Viterbo il 27 marzo, proveniente dal carcere romano di Regina Coeli. Prima di essere arrestato era stato operato alla testa per asportare un ematoma dal cervello che gli causava frequenti crisi epilettiche. Per questi motivi l’uomo era privo di parte della calotta cranica ed era sottoposto a cure continue. Appena arrivato nel carcere di Viterbo era stato sottoposto a una tac ed alcune visite di controllo e la direzione sanitaria del carcere aveva provveduto a prendere contatti con l'ospedale dove era stato operato. Se le cose stanno così, la domanda inevitabile è come sia possibile che una persona in quelle condizioni stesse in carcere, considerando anche che non si trattava di un Totò Riina, a giudicare dalla lieve pena che gli era stata inflitta. E perché una persona così malata non era piuttosto ricoverata e trattenuta nel centro clinico di Regina Coeli, dove avrebbe avuto sicuramente le cure più adeguate alla sua condizione? Siamo certi che nessuno darà una risposta a questi interrogativi.
Un’altra notizia che difficilmente avrà qualche eco significativa (a parte il locale “Mattino di Padova”), si è consumato al carcere “Due Palazzi” di Padova. Un detenuto trentottenne, Fabrizio Rigolon, si sente male. Chiede aiuto, viene portato in infermeria, visitato dalla guardia medica. Poi lo riportano in cella. Chissà: forse chi lo ha visitato ha pensato che non stesse poi così male, oppure non ha creduto alle sue lamentele. Fatto è che Rigolon dopo qualche ora è morto. Il suo corpo, ormai senza vita, viene scoperto dai compagni di cella: appena rientrato dalla visita, si era steso dalla cella, e da lì non si era più mosso.
Cosa abbia provocato quel decesso, lo stabilirà l’autopsia. Giampietro Pegoraro, coordinatore padovano della Cgil Fp Polizia penitenziaria, dice:” È una morte che, anche se non si tratta di suicidio, denota scarsa assistenza sanitaria verso i detenuti. Non si può morire a 38 anni, all’improvviso, in cella. In carcere la sanità deve funzionare come all’esterno. Chiediamo chiarezza su quest’altra morte”. Oltre a quelli che si sono suicidati (quindici), sono ben diciannove i detenuti morti, come si dice, per “cause naturali”; e suona perlomeno ironico e beffardo che nel mondo carcerario, dove nulla c’è di “naturale”, alcune cause di morte siano considerate tali. E non solo i detenuti. Negli ultimi giorni si sono tolti la vita due agenti di polizia penitenziaria. Una ventina, negli ultimi cinque anni. E quanti saranno, gli agenti di polizia penitenziaria che muoiono anche loro per “cause naturali”? Non sembra ci siano dati, e neppure sembra che ci sia qualcuno interessato a scandagliare la questione. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva assicurato una verifica delle condizioni di disagio del personale e l’istituzione di centri di ascolto. A tutt’oggi, denunciano i sindacati della polizia penitenziaria, le promesse sono rimaste tali.
Il PD e le altre opposizioni parlano spesso di alternativa all’esistente berlusconesco. Si può sperare e suggerire di impegnarsi in due iniziative autenticamente riformatrici che urgono: l’abolizione di due leggi criminogene: la Bossi-Fini sull’emigrazione; e la Fini-Giovanardi sulla droga? Se la situazione nelle carceri, nei tribunali, nel mondo della giustizia è quello sfacelo che è, buona parte della responsabilità è di queste due leggi.
va.vecellio@gmail.com
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