mercoledì 20 aprile 2011

Una psicologa racconta : LA PRIMA VOLTA NEL CARCERE FEMMINILE DI PONTEDECIMO


La prima cosa che mi ha colpito del Carcere femminile di Ponte X - ero là per sostituire una collega psicologa - è quella rampa ripidissima che si deve percorrere, necessariamente a piedi o in macchina, per raggiungere la struttura.


Si arriva in cima ad una collina circondata dal verde, in un'area di casolari sparsi, abitati da contadini che, benché a due passi dal centro del quartiere, sembra riportare ad una dimensione ben lontana dallo squallore delle periferie delle grandi città. Un altro mondo, insomma!
Un'immagine surreale o, quantomeno, paradossale: sembra strano concepire un pensiero legato al reato, alla colpa, alla punizione, pensare alla restrizione come perdita della propria intimità e solitudine, la peggiore delle perdite, e osservare questo edificio, ampio e relativamente in buono stato (con un gran fermento di lavori in corso, dentro e fuori le mura in vista di ristrutturazioni), in un contesto così bello, ameno, tanto lontano dal grigiore e dal gelo della città, luogo naturale degli uomini "liberi"….
Immedesimandomi nella condizione di chi è recluso, come spesso mi accade, mi viene da pensare che per me, forse perché amo la natura e da essa mi sento ricaricata, sarebbe già molto avere la possibilità di contemplare quel rassicurante paesaggio che mi circonda.
Ma poi, riflettendo meglio alla luce dell'esperienza diretta con le detenute, verifico la relatività del mio sentire, tutto solo mio, perlappunto! E' la condizione dell'essere libera a permettermi simili fantasie simulatorie. Perché le detenute, in realtà, forse perché troppo appesantite da tutte quelle problematiche tipiche della carcerazione (orari e tempi scanditi da ritmi che si ripetono nel tempo, aspettative legate all'esito dei processi o delle richieste che aprono gli spazi del possibile, le dinamiche legate alla convivenza forzata e, in generale, tutti quei rituali che scandiscono la ripetitività del tempo e ricalcano, silenziosamente ma anche violentemente, la condizione dell'essere ristretti) non la pensano così!
L'ora d'aria raramente riesce a diventare uno spazio ludico dedicato ad una vera ricreazione, all'evasione del tempo libero, alla meditazione, alla socialità. L'espiazione della pena ha tra le sue finalità anche quella di aiutare a crescere, vorrebbe essere uno spazio, un tempo rieducativo che si costruisce nell'apprendere dall'esperienza.
Nell'ora d'aria talvolta, per alcune, sembra quasi impossibile guardarsi intorno o guardare alle cose, comunque, con occhi diversi; troppi invischiamenti affettivi, troppe e troppo forti le dinamiche legate alla "sopravvivenza" in uno spazio ordinario circoscritto e sempre uguale.
Sembra non esserci tempo per godere quel luogo aperto (al possibile) che perde spesso la sua importanza, forse perché di tempo "libero", paradossalmente, ce n'è anche troppo!
Un'altra riflessione maturata nel corso di quest'ultimo incarico in carcere nasce dal confronto con le precedenti esperienza, tutte, sempre, in contesti ospitanti uomini.
Dal punto di vista professionale, entrare in rapporto con detenute del mio stesso sesso, ha favorito in me una maggior capacità di identificarmi con le loro problematiche.
Questo, se da un lato si è reso possibile anche grazie a loro, alla loro capacità di "lasciarmi entrare", dall'altro mi ha permesso di cogliere e sperimentare empaticamente emozioni intime, intense e comprendere meglio ciò che le mie interlocutrici stavano vivendo.
Sgomento, rabbia, abulia, a volte una rassegnazione mortifera. E sempre, dietro la contingenza del reato che ha innescato il percorso deviante e la pena successiva, ho trovato storie non solo di brutture, disamore e abbandono ma anche cariche vitali prorompenti, amore, creatività: è la Vita che mira a mantenersi e perpetuarsi, la Vita che lotta per affermarsi e non morire nell'inedia e nell'assenza.
Con le donne ho scoperto che talvolta bastava offrire un appiglio sentito e sincero per ottenere, dalla maggior parte di loro, un rapporto altrettanto autentico e vivo, senza filtri. Nel bene e nel male.
Pur entrando in quelle stesse dinamiche manipolatorie - frutto anche della perdita di potere che vive chi è ristretto - che anche gli uomini agiscono, rendendo artificiosa la trattazione, insieme, di problematiche anche molto intime, con le donne ho potuto verificare una maggiore possibilità di smascherare quella logica fuorviante per entrare davvero in contatto, affinché un contributo "esterno" potesse davvero permettere una miglior visione della realtà oggettiva.
Nel riflettere su quanto stava accadendo talvolta mi sono ingenuamente stupita, talaltra ho messo a fuoco il grande valore dell'empatia che mi ha dato modo di vivere un'esperienza che, almeno ai miei occhi, è stata tutt'altro che chiusa, buia e oppressiva, ma vitale, creativa, estremamente importante e formativa, una dimensione interiore che infrange uno stereotipo poiché è ben lontana dalla fenomenologia che caratterizza gli effetti dello stato di restrizione.







Laura Ottonello

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