venerdì 29 aprile 2011

L'altro è un altro io diverso da me


Le carceri del cittadino "libero"

Sentiamo spesso parlare di sovraffollamento delle carceri italiane e dei giornalieri suicidi che avvengono nel loro interno; ma perché il mondo delle carceri giace pressoché fuori dalle mura della nostra coscienza? Perché tentenniamo nel sentirci “toccati” dalla disastrosa situazione delle carceri italiane?

Rousseau scriveva:

C’è d’altronde un altro principio che Hobbes non ha affatto intuito, e che è stato dato all’uomo per attenuare in alcune circostanze la ferocia del suo amor proprio, o l’istinto di conservazione prima che questo amore nascesse: tale principio modera l’ardore per il proprio benessere con una innata ripugnanza a vedere soffrire il proprio simile”.

(Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini)

Proviamo a fare un esperimento. Se portiamo un nostro amico a visitare una casa circondariale e al termine della visita gli chiediamo di esprimere un giudizio su quello che ha visto, la sua risposta sarà molto probabilmente simile a questa: “Stanno più comodi di me... hanno anche il televisore!” Questo tipo di risposta è considerata dalla psicologia sociale come una sorta di bias mentale. Sembra che il nostro amico abbia voluto vedere la realtà del carcere con l’unico punto di vista che gli avrebbe confermato la sua teoria preconcetta.
La visita all’interno delle carceri smuove le nostre strutture e le nostre credenze profonde a riguardo della visione del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, tanto che si può avvertire un sentimento di solidarietà per i detenuti. Tale sentimento nasce dall'aver riconosciuto un “fratello” all’interno di una situazione che sappiamo tragica, ma per la coscienza di molti questo è uno stato di pericolo, poiché vengono a svanire le differenze tra la rappresentazione di detenuto (chi ha commesso un reato) e quella di cittadino libero. Una delle principali difese messe in atto per evitare lo sbiadire delle differenze è la cosiddetta “credenza del mondo giusto”.
Questa credenza consiste in una ricerca di una logica di equilibrio e di giustizia per cui chi viene punito deve avere in qualche modo sbagliato. Le persone crederebbero che il mondo sia regolato in modo tale da punire chi sbaglia, come se ci fosse una giustizia universale. (Pajardi, 2008)
Un altro bias mentale che sembra svolgere una funzione di distacco difensivo nei confronti della situazione carceraria è il cosiddetto “errore fondamentale di attribuzione”. Tale errore consiste nella tendenza ad attribuire le cause di un comportamento a fattori disposizionali (personalità) sottostimando l’impatto dei fattori situazionali (ambiente-contesto).
Questo bias permette all’individuo di trovare una giustificazione al fatto che lui non si trova al posto del detenuto, mentre nel suo passato potrebbero giacere esperienze di guida in stato di ebbrezza o di consumo di cannabis, che per puro caso non lo hanno portato all'arresto.
Se la frase di Rousseau sembra ancora reggere di fronte alla visione esplicita della violenza, essa però non regge quando la sofferenza rimane silenziosa, implicita e pericolosa per la nostra personalità.
Mentre il nostro inconscio sembra quindi ricalcare i sentimenti di pietà e fratellanza con il detenuto, la nostra coscienza sembra non voler vedere nel cannocchiale della verità, sembra non voler ricordare quello che già sa.
Le resistenze che pone la nostra psiche sono alla base del fallimento della funzione della pena detentiva. Le funzioni della pena sono la rieducazione e il reinserimento nella società dell’individuo che ha violato il contratto sociale. Ma come può essere rieducativo un carcere che contiene una quantità di detenuti che supera di tre volte la capienza regolare? Come può essere rieducativo stare in una cella per 22-23 ore e avere un’ora d’aria in un campetto di cemento? Come può reinserirsi nella società un ex-detenuto se poi nessuno accetta la sua richiesta di lavoro? Come può dimostrare di rivoler risaldare il contratto sociale a delle persone che non ripongono alcuna fiducia in lui?
Questi i grandi interrogativi che ci pongono le carceri italiane che non sono solo quelle che tengono rinchiusi i detenuti nelle celle ma anche quelle che rinchiudono i nostri pensieri in delle vere e proprie prigioni di ghiaccio.
Rousseau era solito dire: "L'altro è un altro io diverso da me" e intendeva dire che l'altro va trattato come vorrei essere trattato io  -

.http://httpwwwjeanjacquesrousseaueu.blogspot.com/

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