sabato 14 maggio 2011

I camosci e la psichiatria


I camosci e la psichiatria 

“Camosci”. E’ il termine che le guardie carcerarie usano per designare i detenuti. 
Non so immaginare perché a qualcuno, probabilmente una guardia, in un tempo più o meno remoto, sia venuto in mente di associare i detenuti ai camosci, forse a causa dell’idea di movimento frenetico e veloce che i camosci danno, che è il tipo di movimento che si vorrebbe associato a chi è recluso e deve solo correre e non fare domande. 
Una volta il mio istruttore in palestra, una guardia carceraria con l’hobby delle arti marziali -per una sorta di strana combinazione mi sono trovato come istruttore un secondino - venuto a conoscenza del mestiere che faccio mi ha detto scherzosamente: “ tu sei uno di quelli ‘accamosciati’ ?”.Intendeva dire se ero uno di quelli che stanno dalla parte dei detenuti, quindi partigiano di una guerra che vede le guardie opposte a detenuti e operatori delle “scienze umane”. Gli psichiatri, in effetti, hanno un ruolo ambiguo, strettamente legato alla propria cultura e alla propria inclinazione personale, che li rende abili a rivestire sia il ruolo di custodi dei camosci e quindi compagni d’arme delle guardie, che quello di umanisti tormentati dalla sorte degli ultimi e faticosamente impegnati a trovare una via per redimerli.
Nel mio reparto, dove vengono ricoverati pazienti psichiatrici in fase di acuzie a volte mi sento un secondino anch’io.  Questo è un fatto singolare ed anche beffardardamente ironico. La mia storia personale mi pone agli antipodi di un ruolo concepito come controllo sociale e repressione. Eppure non è questione di biografie individuali, inclinazioni, geni, volontà. Come ci ha descritto molto bene Goffman è l’istituzione totale che forgia gli individui che a vario titolo ci sono dentro, a sua immagine e somiglianza. Lo vedo quotidianamente su me stesso e sugli operatori che lavorano insieme a me. Il reparto e le istituzioni psichiatriche in generale, dovrebbero essere dei luoghi quanto più aperti,  spazi dove le energie che provengono dal corpo sociale possano fluire liberamente, agorà nelle quali, pur nel rispetto dei ruoli e delle competenze, la sofferenza e l’emarginazione vengano portate alla luce del sole, e i metodi usati per combatterla quanto più possibile dibattuti e condivisi da tutti. 
La psichiatria in sé dovrebbe essere un luogo aperto. Chi ci lavora deve essere costantemente coinvolto nella cura nell’elaborazione di strategie volte a restituire dignità e salute ai pazienti. Se prevale l’aspetto custodialistico e l’estraniazione dei soggetti che operano e vivono all’interno delle istituzioni, il risultato non può che essere quello di produrre guardie e camosci. Il manicomio rivivrà in una sorta di nemesi dove ogni suo pulviscolo disperso riacquista vita e riproduce chiusura e alienazione.
Gli infermieri del mio reparto hanno imparato il termine camosci e spesso lo usano nei confronti dei pazienti. Mi sono accorto che molti di loro odiano i malati, li avvertono come nemici, perché mai nessuno li ha coinvolti nei processi di cura e nelle strategie d’intervento. A essi è stata lasciata come unica mansione quella dei custodi e dei repressori di comportamenti violenti. Alla fine si sono tramutati in guardie e vedono nei pazienti la causa delle loro frustrazioni e considerano le loro richieste e i loro comportamenti come una violenza indebita e un'impertinenza e non come espressioni di un disagio di cui farsi carico. 
Non voglio esimermi dalle mie responsabilità, la colpa ricade in parte anche sulle mie spalle, sebbene un sistema non possa essere cambiato da una sola persona.
Cercherò comunque, per quanto potrò, di restare umano.

Fonte: http://doppiamente.blogspot.com/

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