martedì 12 aprile 2011

Genova: viaggio nel carcere di Marassi… nove detenuti in una cella

     di Stefano Origone

La Repubblica, 19 marzo 2011

Il restyling non basta, i detenuti ormai sfiorano quota 800. Gli agenti continuano a diminuire: sono 300, ne mancano 160. L’isolamento di Rasero e le leggende su Ivan il terribile che sta a Pontedecimo. 
La struttura radiale del panottico, il carcere “ideale” progettato alla fine Settecento in modo che un guardiano potesse controllare tutti i prigionieri in ogni momento, ti dà la percezione di un’invisibile onniscienza. A mitigare il senso di oppressione sono i corridoi giallini, il colore della libertà e della redenzione. Entriamo a Marassi in un clima ovattato, che appare surreale, mentre infuria la polemica sulle carceri che scoppiano. Il sovraffollamento qui ha toccato record inaccettabili. Uomini stipati come bestie. Dignità calpestata. Percorsi di recupero più difficili.    
“Alla conta di oggi i detenuti sfiorano quota 800, dovrebbero essere al massimo 450, quasi la metà. Trecento sono tossicodipendenti, il 60% è straniero”, sottolinea il direttore Salvatore Mazzeo.
Numeri in continua progressione, mentre quelli degli agenti diminuiscono: sono 300, ne mancano 160, così uno solo la sera si trova a controllare 140 persone. “Siamo a “tappo”: abbiamo ancora tre posti, poi dobbiamo aggiungere la nona branda”, dicono in coro il commissario Luca Morali e il sovrintendente Antonio D’Angelo, capoposto, da 28 anni agente di polizia penitenziaria. Un mese, due, poi arriverà il caldo, e il carcere scoppierà.
Marassi è piccolo e vecchio, costruito a fine Ottocento. Eppure, a guardarci dentro, le celle sono un miracolo, con i bagni puliti, le cucine mignon. Alcune le stanno ristrutturando, arrivano le docce nuove, i muri vengono rinfrescati periodicamente, se ci sono i fondi. Saliamo alla Prima sezione dove si trovano i detenuti in attesa di giudizio. Cella 26. Quello che manca è lo spazio. Pochi metri quadrati, letti a castello che raggiungono il soffitto. Tre incastrati uno dentro l’altro. Dentro sono in otto, ma la regola è essere in nove. Il direttore allarga le braccia. “Chi è in cima al massimo ha quaranta centimetri di spazio: se si alza di scatto, si rompe la testa”.
Panni stesi alle sbarre, le scarpe appoggiate sul cornicione. Cartoline attaccate al muro, poster del Napoli: i detenuti le tengono pulite e in ordine come non farebbero a casa loro. Si soffre, però. Le pareti raccontano sogni, desideri, sentimenti. Hanno appiccicato le foto dei figli, le lettere delle mogli, cartoline. Intorno ai letti, oggetti: cestelli dell’acqua, casette di frutta e verdura. Sul tavolo accanto a un libro di Dan Brown, c’è un fornello da campo. Legale, tanto utile per cucinare, ma purtroppo “anche micidiale perché li usano per suicidarsi”. Cucinotto e bagno sono insieme: tutto in due metri per uno. I detenuti stanno preparando la merenda e hanno infarinato la pasta per le bugie. “Cucina, lettura sono importanti perché il tempo deve passare per chi sta in un buco venti ore al giorno. O fai qualcosa, o impazzisci”, dice D’Angelo.
Facciamo una capatina alla sezione che si sta ristrutturando, poi torniamo al piano terra. In cima in cima, c’è un detenuto “importante”. Aggettivo che indica la gravità del reato: Gian Antonio Rasero. “Quello dell’omicidio di Nervi, del bambino - aggiunge Morali.
È nella sesta sezione, di grande sorveglianza, dove ci sono due agenti”. Ivan il Terribile, il serbo che ha fatto sospendere Italia - Croazia, non è passato di qui, ma è come se lo avesse fatto. Le sue gesta vengono rievocate ogni giorno. “Abbiamo saputo che a Pontedecimo fa palestra, si dedica alla lettura e sta facendo un corso di alfabetizzazione”. Si sente gridare. “Tu con lui ci devi stare, non devi essere razzista... “. L’agente convince un detenuto a tornare in cella. “È tunisino. Protesta perché l’abbiamo messo con un marocchino e non ci vuole stare. Si sono rivalità che purtroppo sfociano in aggressioni. Se potessimo farlo, li divideremmo, ma i posti sono finiti”.

Daniel: dall’incubo droga al sogno di fare il cuoco

Negli ultimi anni Daniel si è coricato presto, la sera. Niente amici, né svaghi, né ragazze. Daniel ha 23 anni, è di Sampierdarena, vive nelle terza Sezione a custodia attenuata. Non deve restare per forza venti ore in cella, come gli altri detenuti. Lui può anche uscire da quei pochi metri quadrati, girare lì attorno, e, se vuole, può perfino giocare a pallone nel campetto. Sembra una bestemmia, ma è fortunato, Daniel: sta seguendo un piano che aiuta i detenuti tossicodipendenti e li prepara gradualmente alla vita; passerà infatti a una comunità di recupero che tenterà di favorire il suo reintegro nella vita, libera.

Sguardo profondo e tanti capelli, tagliati corti, che stanno su, dritti, come col gel. Una maglietta bianca e i pantaloni della tuta, come “prima”, quando stava fuori. Fuori da tutto, di testa e dal mondo. Quando aveva 15 anni, tanti problemi e non si trovava così a suo agio nella sua età, ha cominciato a farsi per uccidere il tempo e la noia del grigiore dei giorni e delle vie dove era nato. Poi col tempo, si sa, le emozioni non ti bastano mai, e dall’erba si passa alla polvere, non importa il colore.
Ma la polvere costa. Per procurarla si arriva a tutto, anche a far cose che a mente fredda condanni e non giustificheresti mai: rubare. Gli amici non aiutano, in certi casi, e ti tirano sempre più giù, così in basso, che poi puoi solo risalire. Lui ci sta riuscendo, eccome: aleggia l’aroma dei broccoletti strascicati in padella con l’aglio per tutto il corridoio. Fuori dalla cella l’insegna “trattoria a modo mio e... non si discute”. Ha carattere Daniel, lo si capisce anche dal nome che ha voluto dare alla sua nuova attività, alla sua nuova vita.
Non è solo in quest’impresa grande, è costantemente affiancato da uno psicologo, un educatore ed altra gente che lo vuole aiutare: “Sono felice di parlare con loro”. Da quello spinello sono passati anni, sempre in salita, con il groppo in gola e la morte nel cuore. Aveva anche provato a smettere, ma la grande voglia di “non vivere” glielo aveva sempre impedito, d’accordo con le cattive compagnie, ragazzi sfortunati come lui, con cui il destino non era stato magnanimo.

L’ultimo furto gli era costato 20 mesi. Uscirà a luglio, la prossima estate e il suo sogno è quello di aprire un posto dove cucinare come ha imparato lì, a Marassi, chi l’avrebbe mai detto, ma forse, dice lui fattosi un pò più piccolo e timido, gli basterebbe andare a cucinare anche per altri, in un ristorante, o addirittura, si accontenterebbe di fare le pulizie. “Ma se potessi servire un bel risotto ai funghi e panna, la mia ricetta preferita, farei i salti di gioia”.

Non tutti siamo in grado di capire i sogni di un ragazzo, che ha vissuto una vita particolare. Nella cella a fianco c’è Johnny, ha 24 anni e capelli biondi. Quasi un americano. Anche lui ha un sogno: la sua cella è satura di colori sciolti dentro bicchieri di plastica allineati sul tavolino. Tutt’intorno i muri sono ricoperti delle sue “gouache”. Vorrebbe essere come Vincent Van Gogh e si esprime tratteggiando segmenti di luce abbagliante, perché lo aiutino a uscire dalle sue tenebre. Esporrà lunedì, il 21 marzo, primo giorno di primavera, nel palazzo della Regione nell’ambito del convegno “Un ponte tra carcere e territorio”.

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