mercoledì 10 agosto 2011

Carcerati e carcerieri : gli effetti della reclusione sulla psiche








Effetto Lucifero
Roberta Frison
(lettura criminodinamica del film “The experiment” di Oliver Hirschbiegel)


Tutto è cominciato come un esperimento in nome della scienza: venti uomini
rispondono a una inserzione di un giornale, loro, stanno solo cercando un modo per
fare soldi facilmente.
Si tratta di un insolito esperimento, effettuato su venti cavie umane che non
dovranno, come solitamente succede in questi casi, assumere dei farmaci o fare
traumatici esami medici.
E’ organizzato da un team di medici e psicologi, e i volontari, in cambio di 4000
marchi (circa 2000 euro), dovranno essere rinchiusi in un carcere simulato per due
settimane.
I partecipanti vengono selezionati accuratamente dallo staff, che, dopo averli
analizzati, spiegano loro l’obiettivo dell’esperimento: studiare le loro reazioni in una
situazione “obbligata” e verificare la loro capacità di mantenere il controllo. Vengono
divisi in 8 guardie carcerarie e 12 detenuti osservati 24 ore su 24 dall’occhio del
grande fratello: telecamere fisse che seguono tutti i loro movimenti.
Il primo avvertimento dato ai volontari dalla dottoressa Grimm è che coloro che
sono stati selezionati per impersonare i detenuti dovranno: “ sacrificare gran parte
della loro privacy e dei loro diritti civili…” dovranno inoltre togliersi tutto ciò che hanno
di personale e indossare delle casacche numerate, non avranno più un proprio nome
di battesimo ma verranno identificati e chiamati attraverso un numero.
Coloro che invece interpretano il ruolo di secondini dovranno avere un atteggiamento
diverso, infatti come disse loro il professor Thon:..”signori adesso siete guardie
carcerarie di una prigione. Il vostro compito è di garantire la tranquillità e l’ordine e di
far rispettare le regole. Un compito serio, l’esito di questa simulazione dipende da voi.
Se non l’affrontate con la massima disciplina e forte senso di responsabilità
l’esperimento sarà inutile e dovrò interromperlo. Non giocherete a guardie!.. da
adesso voi siete delle guardie!!…”

Inizialmente i detenuti vedono l'esperimento come un gioco, e di fatto prendono poco
sul serio le guardie scherzando con ridicole battute e barzellette. Il clima inizia però a
cambiare fin dall'ora di pranzo del primo giorno, a causa del comportamento di Tarek,
che inizia a sfidare con serietà il potere delle guardie.
Tarek Fahd ha una motivazione diversa dagli altri volontari per trovarsi in quel luogo,
vede la possibilità di uno scoop giornalistico che lo può rilanciare e affermare nel
mondo dei mass-media, lui, che ora è un semplice tassista con una passata carriera
giornalistica tutt’altro che rosea, per questo motivo il suo atteggiamento è critico e
distaccato.
La prima rivolta collettiva, innescata anch'essa da Tarek e sempre per motivi di sfida,
avviene dopo sole 36 ore. E’ l’oggetto preferito delle attenzioni dei secondini perché
più scaltro degli altri ed insofferente alle imposizioni. Lui non vuole sottomettersi alle
guardie e fa di tutto per provocarle e deriderle. Le guardie cominciano a vederlo
come un elemento di disturbo, tanto che il terzo giorno lo portano in un locale privo di
telecamere per vendicarsi su di lui fisicamente e consigliargli di far richiesta agli
psicologi di abbandonare l'esperimento.
La tensione generale tra i detenuti peggiora di ora in ora e alcuni vengono pure fatti
ricoverare, al punto che al quinto giorno la dottoressa Grimm , ritenendo che
l'esperimento abbia già fornito dati a sufficienza, inizia a pensare che sarebbe meglio
interrompere tutto, prima di ulteriori inutili aggravamenti psicologici. L'esperimento
invece viene lasciato andare avanti e per di più il professor Thon, che è a capo
dell'equipe, si assenta per un giorno.
L'esperimento si trasforma effettivamente in una macchina mortale quando la guardia
Berus scopre che Tarek ha tentato di sabotarlo tramite un messaggio inviato
all'esterno: pensando che tutto sia stato congegnato apposta fin dall'inizio per mettere
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le guardie alla prova, propone l'isolamento totale dall'esterno sia della prigione che
delle sale di controllo.
La situazione precipita in una escalation di aggressività finché la linea immaginaria tra
ciò che è reale e la simulazione si rompe: il senso di potere e onnipotenza inizia a
inebriare le menti dei carcerieri, la loro cattiveria e brutalità è disumana non vi è più
rispetto e dignità per l’essere umano ma solo un ritorno primordiale alla vendetta e
alla violenza fisica.

Questo film racconta nel modo giusto l’evoluzione dei caratteri e dei comportamenti
dei personaggi, di come un uomo accetta dei ruoli imposti dall’alto al punto da
diventarne vittima, di come si scivoli velocemente nella sfera animale se sottoposti a
determinate condizioni. Non c’è più una divisione fra bene e male, semmai il
contrario: ci si domanda come definire bene e male.

E’ stato ispirato da un esperimento di psicologia sociale realizzato nell'agosto del
1971 nel seminterrato dell'Istituto di psicologia dell'Università di Stanford, a Palo Alto,
da un illustre psicologo statunitense Philip Zimbardo, dove fu riprodotto in modo
fedele l'ambiente di un carcere.

Il lavoro di Zimbardo consisteva nel tentativo di confutare la fondatezza di una
credenza assai diffusa, alla fine degli anni sessanta, secondo la quale i comportamenti
degradanti e violenti osservabili all'interno di un'istituzione come il carcere sono
soprattutto dovuti a disfunzioni della personalità, innate o apprese, dei carcerati e
delle guardie, dimostrando piuttosto come tali condotte dipendano dalle specifiche
caratteristiche della situazione contestuale.

 Zimbardo riprese alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso
costituente una folla, tendono a perdere l'identità personale, la consapevolezza, il
senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali.


Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano
che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di
ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti;
furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I
prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un
numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a
una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie
indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai
prigionieri di guardarle negli occhi, erano dotati di manganello, fischietto e manette, e
fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere
l'ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di
deindividuazione.

I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli
sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si
verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si
barricarono all'interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a
intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà
che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni
oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le
latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo)
riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al
quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e
collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà
appariva seriamente compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le
guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i
ricercatori interruppero l'esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei
carcerati, ma dall'altro, un certo disappunto da parte delle guardie.

Secondo l'opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta era diventata, nell'esperienza
psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, una prigione vera.

 Assumere una funzione di controllo sugli altri nell'ambito di una istituzione come quella del carcere,
induce ad assumere le norme e le regole dell'istituzione come unico valore a cui il
comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella "ridefinizione della situazione"
utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato
eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico
delle persone. Il processo di deindividuazione induce una perdita di responsabilità
personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni,
indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli
che inibiscono l'espressione di comportamenti distruttivi. La deindividuazione implica
perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un'aumentata identificazione e sensitività
agli scopi a alle azioni intraprese dal gruppo: l'individuo pensa, in altri termini, che le
proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo.


Questo esperimento viene portato ancora oggi a dimostrazione del cosiddetto Effetto
Lucifero, ossia la possibilità che alcune particolari situazioni siano in grado
di trasformare persone normalissime in criminali capaci di macchiarsi delle peggiori
efferatezze, come dimostrano le recenti vicende riguardanti le torture cui furono
sottoposti i prigionieri irakeni nel carcere di Abu Ghraib, ad opera di militari
statunitensi, durante l'occupazione militare dell'Iraq, iniziata nel 2003. Le immagini
diffuse dai media, che, ritraggono le sevizie e le umiliazioni subite dai prigionieri,
risultano drammaticamente simili a quelle prodotte durante l'esperimento
dell'Università di Stanford.

Ma, concretamente, cosa consente di passare dallo stato di bontà a quello di
cattiveria?
Secondo Zimbardo è la diffusione della responsabilità che si verifica all’interno dei
gruppi: non essere chiamati a rispondere in prima persona di una azione, poter
distribuire la responsabilità d’essa tra i membri di un gruppo rende più disinibiti e
porta a compiere anche ciò che da soli non si penserebbe mai di fare. In aggiunta, il
ruolo che si assume al suo interno funge da autorizzazione a infrangere determinati
limiti, regole o barriere che quotidianamente vengono rispettati. Per certi versi
l’individuo si deumanizza e si riduce ad una maschera, un compito, un’azione.
L’elemento più a rischio sta nel fatto che una volta entrati a fare parte di questi
meccanismi, diventa assai difficile uscirne, un po’ come accade all’interno delle sette,
perché si innescano degli schemi di comportamento che è arduo infrangere.


Facciamo un passo indietro e analizziamo il concetto di responsabilità e di
interdipendenza. Secondo le filosofie orientali c’è un meccanismo di interdipendenza
che regola il fenomeno vita. C’è una evoluzione costante che porta al cambiamento
verso l’opposto. Per questo non esiste contrapposizione tra bene e male, giusto e
ingiusto, ma un predominio di una polarità rispetto all’altra, in alcuni momenti di vita,
che si verifica per continui passaggi.
Non c’è mai stata né mai potrà esistere una conciliazione tra gli opposti e proprio per
questo nessuno dei due poli è da preferire all’altro. L’esistenza di un polo è condizione
necessaria e indispensabile per l’esistenza dell’altro e per la sua manifestazione. In
sintesi, si va al di là del bene e del male. Semplicemente, è.
Ma in tal caso, dunque, come viene regolato il proprio comportamento?
In base all’osservazione se questo è in grado di stimolare il divenire, il cambiamento,
il naturale flusso della vita, oppure se, al contrario, si oppone ad esso. La
consapevolezza, quindi, diventa la molla fondamentale per agire in modo sano e
naturale.
Su un piano più prettamente psicologico potremmo affermare allo stesso modo che,
nella misura in cui siamo consapevoli dei nostri lati oscuri, degli aspetti più aggressivi,
turbolenti, pronti ad esplodere alla minima provocazione, siamo anche sulla buona
strada per decidere se e in che misura farli emergere.
Ed ecco che così torna il concetto di responsabilità: nella misura in cui siamo
consapevoli di noi stessi, di ciò che ci anima e ci motiva, nella misura in cui siamo
disposti a farcene carico, senza delegarla ad altri, o attribuirla a qualcosa di esterno,
siamo degli individui liberi di agire, senza farci travolgere dalle nostre passioni e dai
nostri istinti.

Facile a dirsi, ma, forse, a volte, un po’ meno a farsi.
In un gruppo, infatti, spesso e volentieri ci si mette in secondo piano, si abdica ad una
parte di sé che, però, può essere (facilmente) recuperata, se veramente lo si desidera.
Come? Coltivando il proprio senso di identità e di individualità. Questa consente di
partecipare ad un gruppo, di entrarne e di uscirne senza perdere le proprie peculiarità
di singolo, senza abdicare alle proprie responsabilità e impegni che vengono presi
prima di tutto nei propri confronti ancor prima che nei confronti degli altri membri.
D’altra parte, per citare ancora una volta il concetto di interdipendenza, se il singolo si
comporta in modo attento, rispettoso e responsabile, anche chi sta intorno sarà
incoraggiato a fare altrettanto, perché è consapevole che gli effetti delle sue azioni
ricadono sia su di lui, sia su chi sta intorno, sia sull’insieme di coloro che lo circondano
e di cui è parte, cioè il gruppo.
Ed ecco, quindi, che sebbene la questione etica risenta ancora di una quota di
soggettività e sia contestualizzata in un luogo e in un tempo ben definiti, si è riusciti a
superare un dualismo che non ha ragion d’essere, nella misura in cui è costitutiva
dell’essenza di ciascuno di noi e rappresenta la condizione indispensabile per
l’esistenza. Andare al di là di un dualismo consente un approccio più sereno alla vita
nelle sue molteplici manifestazioni, portando ad accettare con pacatezza le sue più
svariate sfumature. E, ancor di più, risveglia a gran voce il senso di responsabilità di
ciascuno e il senso di interconnessione che lo vede legato ad un contesto più ampio di
cui è parte, in cui offre il suo contributo e da cui viene influenzato.
Psicologicamente questo coincide con un livello maggiore di maturità che potremmo
paragonare alla saggezza della fase adulta della vita in cui il pensiero non si limita a
se stessi, ma va oltre per connettersi ad un sistema più ampio di cui ciascuno,
direttamente e/o indirettamente, è parte e a cui è chiamato a rispondere in modo
pieno e responsabile.
L’unico dubbio che può venire in mente sullo Stanford Prison Experiment e quindi
sull'approccio situazionista al comportamento umano è: erano realmente
assenti elementi psicologici e di personalità nei partecipanti, che avrebbero
potuto favorire l’emergere degli spietati comportamenti osservati?
I partecipanti furono reperiti tramite un annuncio su un giornale che invitava maschi
adulti a prendere parte a “uno studio psicologico di vita carceraria” e tutti quelli con
problemi mentali o un passato criminale o antisociale sono stati esclusi, ma
nonostante ciò i soggetti rimasti, avevano punteggi significativamente maggiori in
misure di aggressività, autoritarismo, machiavellismo, dominanza sociale, e punteggi
significativamente inferiori in misure di altruismo e empatia.
Il dubbio, legittimo a questo punto, è che nello Stanford Prison Experiment, oltre alla
situazione, abbiano giocato un ruolo non marginale fattori di personalità dei soggetti,
fattori sfuggiti allo screening per l' assenza di un gruppo di controllo.
Questi risultati suggeriscono, in una logica più interazionista del comportamento
umano, che per esempio ad Abu Graib, e ovunque si verifichino casi di crudeltà
gratuita, è possibile che persone dalla personalità simile cerchino attivamente, anche
se inconsapevolmente, una situazione che consenta loro di realizzare un certo tipo di
abusi, al cui compimento sono già, in qualche modo, prediposti e che lo
spalleggiamento reciproco rinforza ed esaspera.

Lo Stanford prison experiment è la chiave per capire il comportamento di internati e
SS naziste all'interno dei lager.
Le ricerche effettuate dalla psicologia sociale hanno potuto fornire degli importanti
strumenti per evidenziare la facilità con cui, degli uomini comuni, sono in grado di
mettere in atto dei comportamenti estremamente violenti nei confronti di soggetti
sconosciuti e innocenti. Tali strumenti possono essere utilizzati per contribuire a
comprendere i motivi che spinsero comuni uomini tedeschi a deumanizzare, umiliare,
picchiare e torturare quelle persone che venivano considerate dal Terzo Reich come
inferiori e appartenenti alla classe dei sub-umani. Le SS sono state le maggiori
responsabili delle atrocità subite dagli ebrei all’interno dei campi di concentramento.
Le guardie naziste che si trovavano all’interno dei campi di concentramento, a
differenza della tesi sostenuta da Eugen Kogon, non erano affatto delle persone
sadiche e depravate, bensì erano dei normali uomini che venivano spinti a
comportarsi in maniera crudele a causa della particolare situazione e del particolare
ambiente in cui essi si trovavano. La tesi di Kogon perciò è da respingere
nettamente, così come tutte quelle interpretazioni che, secondo la classificazione
eseguita da Michael Mann, considerano le guardie naziste come “disturbed killers”.
Era il particolare ambiente, in cui si trovavano le guardie naziste e i prigionieri ebrei,
a favorire il comportamento violento e crudele dei primi. Per analizzare il
comportamento atroce messo in atto dalle SS all’interno dei lager, bisogna perciò
partire da un presupposto fondamentale, quanto scioccante: tali persone erano
uomini comuni. Solamente una piccolissima parte di loro, in accordo anche alle
testimonianze riportate, poteva essere considerata affetta da gravi disturbi mentali;
tuttavia, il grande orrore generato all’interno dei campi di concentramento, e
l’uccisione sistematica e altamente programmata degli ebrei, sono eventi che sono
potuti accadere proprio grazie alla «normalità» delle persone impiegate per realizzare
tali compiti.
I risultati degli esperimenti di psicologia sociale effettuati sulla deindividuazione, sulla
deumanizzazione e sull’obbedienza all’autorità, sono in grado di mettere in evidenza
quei processi psicologici che hanno favorito, sia all’interno del laboratorio, sia nella
circostanza concreta del campo di concentramento, l’indebolimento delle inibizioni a
commettere violenze e la conseguente messa in atto di comportamenti estremamente
distruttivi. I risultati ottenuti dallo Stanford Prison Experiment ad esempio,
evidenziano bene la velocità con cui un gruppo di normali cittadini possa trasformarsi
in un gruppo di guardie sadiche e crudeli. Zimbardo ha mostrato infatti come, dopo
appena tre giorni di vita all’interno della sua mock prison, il modo di comportarsi dei
soggetti che rivestivano il ruolo di guardie, sia diventato particolarmente violento e
crudele: dopo appena tre giorni di esperimento infatti, il comportamento all’interno
della prigione stava iniziando a degenerare velocemente. Il fatto poi che Zimbardo
venne costretto a sospendere l’esperimento solamente dopo alcuni giorni, evidenzia il
grande impatto causato su delle persone «normali» da un ambiente e da delle
situazioni molto particolari, che favorivano il processo di deindividuazione e di
deumanizzazione: a Zimbardo bastarono appena sei giorni di tempo per dimostrare
con quanta facilità quella linea immaginaria che separa il bene dal male potesse
essere varcata da uomini comuni. Partendo dalle analisi effettuate da Zimbardo
perciò, è facile capire quanto le ben più estreme circostanze che si presentavano
all’interno dei lager, potessero favorire il comportamento violento delle SS; queste
infatti, così come i soggetti che rivestivano il ruolo di guardie all’interno dello Stanford
Prison Experiment, erano spinte da particolari circostanze ad entrare in stato di
deindividuazione, con tutte le conseguenze che l’entrata in tale stato poteva generare.
È stato evidenziato quanto il processo di deumanizzazione della vittima dei propri
comportamenti violenti, possa favorire la disinibizione di tali comportamenti nei suoi
confronti. A tal proposito, è opportuno ricordare quanta influenza ebbe
nell’esperimento realizzato da Bandura, Underwood e Fromson, la consapevolezza, da
parte dei volontari che partecipavano alla prova sperimentale, di dover valutare il
comportamento di vittime definite come «animali». Se si parte da questo presupposto,
e si integra con alcuni aspetti importanti evidenziati da Zimbardo, è facile
comprendere quanta influenza abbia avuto sul comportamento delle SS non solo la
propaganda discriminatoria organizzata dal regime nazista ai danni degli ebrei, ma
anche le pessime condizioni fisiche, igieniche, e i modi di comportamento disperati
messi in atto dagli stessi ebrei: questi ultimi infatti, agli occhi delle guardie naziste,
stavano diventando progressivamente simili a degli animali, e ciò contribuiva, in
accordo alle osservazioni eseguite da quegli studiosi che hanno analizzato le cause e
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le implicazioni del processo di deumanizzazione, a far superare alle SS le inibizioni a
maltrattare le loro vittime. Il processo di deumanizzazione della vittima infatti,
facilitava notevolmente il compito delle guardie naziste. Le condizioni igieniche in cui
venivano costretti a vivere gli ebrei, la loro scarsa alimentazione e i lavori massacranti
ai quali erano sottoposti, facevano perdere loro lentamente i tratti tipici delle persone
comuni, e contribuivano a farli apparire agli occhi delle guardie naziste non come degli
uomini, bensì come degli esseri sub-umani che si meritavano le punizioni che
venivano loro inflitte: tutto ciò favoriva inevitabilmente la disinibizione del
comportamento violento nei loro confronti. Lo stesso meccanismo psicologico si
manifestava anche all’interno della mock prison di Stanford.
A favorire il processo di deumanizzazione eseguito ai danni dei prigionieri ebrei,
contribuiva inoltre il pessimo odore che essi emanavano, causato da delle condizioni
igieniche assolutamente pessime: Sabini e Silver sottolineano infatti che l’impedire ad
una vittima di curare la propria igiene personale, costituisce il metodo più efficace per
favorire i processi di deumanizzazione e di degradazione nei suoi confronti. Lo stesso
Franz Stangl, comandante nazista al campo di Treblinka, dopo che gli era stato chiesto
il motivo per cui i prigionieri ebrei venivano ridotti e trattati come degli animali
selvaggi, rispose che tale trattamento era messo in atto proprio per favorire i
comportamenti violenti e distruttivi delle SS nei loro confronti. La risposta di Stangl
evidenzia ulteriormente perciò come la maggior parte delle SS, non essendo sadica o
mentalmente disturbata, avesse la necessità di trovare una soluzione che le
consentisse di superare le normali inibizioni ad umiliare, torturare e uccidere delle
persone come loro: la deumanizzazione della vittima costituiva tale soluzione. Anche
se le conseguenze della deumanizzazione subita dagli ebrei all’interno dei lager sono
state estremamente più gravi e più atroci rispetto alle conseguenze della
deumanizzazione subite dai prigionieri di Stanford, e benché tale processo sia stato
favorito notevolmente dalla propaganda di regime, tuttavia è evidente che il processo
psicologico che si è manifestato all’interno dei due diversi contesti è stato lo stesso, ed
è evidente come tale processo, messo in atto da persone «normali», abbia potuto
favorire in entrambe le circostanze la messa in atto di atti violenti. Il processo di
deumanizzazione perciò, così come può spiegare validamente alcuni dei motivi che
hanno spinto le guardie di Stanford a maltrattare e ad abusare i loro prigionieri, allo
stesso modo può contribuire, tenendo in considerazione però anche altri aspetti, a
spiegare i motivi di molte delle atrocità messe in atto nei confronti degli ebrei.
Un altro motivo che favoriva il comportamento violento delle guardie, sia all’interno
del carcere di Stanford, sia all’interno dei campi di concentramento nazisti, è da
ricercare nell’annullamento della personalità individuale subito dai prigionieri. Il
processo di deumanizzazione, come è stato sottolineato, viene favorito soprattutto con
il progressivo ed estremo abbrutimento delle condizioni fisiche della vittima e con la
sua perdita graduale dei tratti e dei modi di fare tipici di un essere umano. La
deumanizzazione di un uomo però, e di conseguenza il crollo delle inibizioni a
comportarsi nei suoi confronti in maniera violenta, viene favorito anche dalla
cancellazione di tutti quei tratti strettamente personali che costituiscono la sua unicità
e la sua identità.
Attraverso tale processo cioè, la vittima diventa estremamente simile a tutte le altre
vittime, e ciò impedisce ulteriormente alle guardie di percepire realmente la
sofferenza personale che ciascun soggetto sta interiormente provando. L’insieme delle
vittime non viene cioè percepito più come un insieme ben definito e composto da
esseri umani estremamente differenziati l’uno dall’altro, bensì viene considerato come
una massa informe di esseri anonimi, l’uno uguale all’altro. Tale processo consente
ulteriormente di far crollare le inibizioni a mettere in atto delle violenze nei confronti di
una vittima che in tal modo è privata dei suoi tratti distintivi: l’importanza della vita
umana della vittima tende progressivamente a diminuire, fino a risultare agli occhi
delle guardie non più importante di una cosa, o, molto più spesso, di un semplice
numero.

Questo tipo di atteggiamento nei confronti dei prigionieri, sia all’interno della
«mock prison», sia all’interno dei campi di concentramento, veniva ad esempio
favorito dalle particolari divise che dovevano essere indossate dai prigionieri. I
prigionieri infatti, subito dopo aver indossato le divise, e subito dopo esser stati
spogliati di qualsiasi oggetto personale che potesse contraddistinguere la loro unicità,
diventavano ben presto agli occhi delle guardie dei soggetti l’uno simile all’altro,
anonimi, e ciò favoriva la messa in atto di comportamenti violenti nei loro confronti.

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fonte: Elaborati finali degli studenti dei Corsi tenuti dalla Prof. Laura Baccaro



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