domenica 14 agosto 2011

Gli ultimi fra gli ultimi .........


di Valentina Ascione

Gli Altri, 13 agosto 2011

“Ci sono detenuti che non vogliono più fare il lavoro del porta-vitto perché quando arrivano alle ultime celle e non c’è più da mangiare, non ce la fanno a sopportare la rabbia dei loro compagni.
C’è una zona grigia in cui non si sa come far fronte all’aumento della miseria, intere sezioni dove le persone non lavorano e sono povere, non fanno i colloqui perché stranieri, o abbandonati dalle famiglie perché tossicodipendenti. Le attività, anche nelle carceri migliori, coinvolgono una fetta di popolazione detenuta piccolissima”.
È anche questa la realtà che Ornella Favero racconta a Gli Altri, a margine del grande convegno sulla giustizia promosso al Senato dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che l’ha vista tra i protagonisti. Questo il carcere guardato con gli occhi di un volontario, vissuto sulla pelle di chi trascorre giornate intere con i detenuti nel tentativo di alleviare la loro solitudine, ma soprattutto di sopperire alle carenze di sistema ormai incapace di garantire anche i servizi minimi.
Il nostro viaggio attraverso la comunità penitenziaria non detenuta si conclude almeno per il momento - qui, tra i volontari. In compagnia della coordinatrice di “Ristretti Orizzonti”: una vera e propria perla rara nel nostro panorama carcerario, che dalla cellula operativa all’interno del “Due Palazzi” di Padova raccoglie informazioni e divulga notizie su quanto accade nelle galere italiane. Detenuti e volontari esterni lavorano fianco a fianco, tutti i giorni, offrendo un contributo unico alla conoscenza di un mondo tenuto da sempre ai margini della vita del Paese.
“Noi lavoriamo per annullare la distanza fasulla che separa il carcere dalla società - spiega Ornella Favero - il carcere non è fatto, come s’immagina o si vorrebbe, da persone diverse da noi”. Chiunque può finire nel tritacarne della giustizia, impiegati o studenti, ad esempio, fermati alla guida in stato di ebbrezza, che a Padova possono sostituire un anno di detenzione con un anno di lavori socialmente utili: “Gli facciamo assaggiare la galera, provando a evitargliela”. Una possibilità che potrebbe essere estesa a molte altre fattispecie di reato, se solo si cominciasse a considerare la carcerazione come l’extrema ratio del sistema penale. Invece continua a essere la strada maestra, così le galere scoppiano e riuscire a fare qualcosa per gli ultimi degli ultimi è sempre più difficile.
“Si pensa al volontariato come a una sorta di beneficenza, ma a me piace l’idea di rendere un servizio. Abbiamo aperto uno sportello coinvolgendo avvocati volontari, dipendenti dell’Inps, gente in pensione che mette a disposizione la propria professionalità per far fronte a problemi di varia natura come, ad esempio, autenticare una firma. Esistono diritti che nessuno tutela, quindi proviamo a farlo noi. Offriamo risposte che le istituzioni non danno perché mancano soldi, energie o personale”.
Un’iniziativa preziosa che si potrebbe replicare anche altrove, ma la vita del volontario penitenziario è tutt’altro che semplice. In alcuni istituti è quasi impossibile accedere, in altri gli orari sono fortemente limitati. “Bisogna fare delle battaglie, conquistarsi gli spazi”, il carcere è gestito ancora come una struttura feudale, continua Ornella Favero, il regolamento è ovunque lo stesso, ma non l’apertura alla società. “Ogni anno facciamo entrare 3-4 mila studenti che vengono in visita in piccoli gruppi. È un lavoro, pure per gli agenti che devono fare l’accoglienza, ma anche un’esperienza straordinaria che ha avvicinato moltissimo il carcere alla società. Eppure in altre realtà è considerata una rottura di scatole”.
Tutte cose che pochi giorni fa Ornella Favero e rappresentanti di altre associazioni hanno spiegato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta il quale, dopo l’incontro, ha diramato una circolare che invita gli istituti ad aprire il più possibile le porte al volontariato. Quello che serve per uscire dall’emergenza, infatti, è un’idea diversa di carcere, orientata all’apertura e non alla chiusura, che non necessariamente fa rima con sicurezza. Anzi.
“È assai più rischioso tenere la gente in prigione fino all’ultimo giorno e metterla fuori più incattivita di prima”, osserva. “La galera pura e semplice non serve a niente, una persona rinchiusa costituisce una sicurezza per il tempo della pena, ma una volta libera è una bomba a orologeria. Bisogna aprire le carceri e pensare a pene diverse, siamo l’unico Paese che non ne prevede. In tanti stanno dentro con pene leggere o residui di uno o due anni, metterli fuori sarebbe più sicuro”.
Ragioni sempre più radicate all’interno della comunità penitenziaria e che trovano riscontro nelle statistiche, ma che è raro ascoltare nei dibattiti della televisione italiana scandalizzata per il cosiddetto carcere a cinque stelle dove in Norvegia è rinchiuso l’autore della strage di Utoya. “Se spegniamo la tv e accendiamo la realtà - spiega ancora Favero - chiunque capisce che la vera pena è la privazione della libertà. Quando andiamo nelle scuole chiediamo ai quindicenni: immaginate di stare chiusi per 15 anni nella vostra bellissima stanza, di dover chiamare qualcuno per fare la doccia, di non poter parlare con nessuno, di poter sentire gli altri della casa per soli dieci minuti alla settimana e di vederli per un’ora.
Stare in una stanza extralusso cambierebbe davvero le cose? Anche il peggiore degli uomini va trattato con rispetto, se prendi un cane aggressivo, lo bastoni e lo incateni non diventa migliore”. Un detenuto maltrattato si sente vittima, non responsabile di un reato. Trattare da persona e punire con rispetto anche chi fa cose terribili è invece l’unico modo per metterlo di fronte ai propri errori. “La giustizia mite è spiazzante, è lo strumento più intelligente che uno Stato ha per chiedere ai cittadini di assumersi le proprie responsabilità. È una lezione straordinaria”.

fonte : Ristretti . it

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